A che serve l’obbedienza nella Chiesa?

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1 • «Obbedienza», una brutta parola

«Povertà».

«Castità».

«Ob…».

«Ob…».

La parola «obbedienza» è una brutta parola.

Chi è che obbedisce?

  • i deboli
  • gli sconfitti
  • i soggiogati
  • i sottomessi
i sottoni

Invece chi è che non obbedisce?

  • chi ragiona con la propria testa
  • i self-made men
  • le persone originali, che «pensano fuori dal coro»

Quando parliamo di «obbedienza», questi sono i pensieri che ci vengono in mente di getto.

O – come direbbe un esperto di scienze sociali – «ci troviamo all’interno di questo frame».

Con la parola «frame» (dall’inglese, «cornice») si intende il modo in cui le persone interpretano parole, frasi, concetti, e la realtà per intero.

Ecco.

Se questo è il frame in cui ci troviamo, per capire qual è il senso della parola «obbedienza» è necessario fare «reframing», ossia svincolarsi da pregiudizî e bias cognitivi, per capire qual è il senso con cui all’interno della Chiesa si utilizza questa parola.

2 • A che serve (veramente) l’obbedienza all’interno della Chiesa?

Arturo Carlo Jemolo (1891-1981) è stato un giurista, storico e accademico italiano.

È stato un cattolico liberale (o, come diceva lui stesso, un «liberal-cattolico»), impegnato in sostegno della laicità dello Stato.

Intervistato alla fine degli anni ’80, disse queste parole a Vittorio Messori:

Questo è il mio testamento di giurista e di storico: non solo mi riconosco filialmente nella Chiesa cattolica, apostolica, romana.
Ma credo anche che le siano essenziali quegli aspetti istituzionali, giuridici, canonici che oggi sono rifiutati persino da certi teologi.
Credo in una Chiesa anche gerarchica, maestra autorevole di fede, perché il nome di “cristianesimo” non faccia la fine del termine “socialismo”, che nessuno sa più che cosa voglia dire.
La storia mi ha poi insegnato che non c’è futuro per chi si distacchi dal tronco della Chiesa col proposito di meglio procedere alla sua pur sempre indispensabile riforma.
Chi l’ha fatto, o si è ridotto a sètta continuamente frazionata e litigiosa, o è stato fagocitato dalla politica, dalla storia: l’impegno orizzontale ha distrutto la tensione verticale.

(ARTURO CARLO JEMOLO, intervistato in VITTORIO MESSORI, Inchiesta sul cristianesimo: sei tu il Messia che deve venire?, Società editrice internazionale, Torino 1987, p.59)

Le parole di Jemolo mi hanno fatto venire in mente un aneddoto.

Qualche anno fa, chiacchieravo con un mio amico, che stava studiando per prendere la licenza in teologia.

amico teologo

Quel giorno, il mio amico mi disse che secondo lui Martin Lutero (1483-1546) aveva fatto bene a separarsi dalla Chiesa di Roma.

E, con lui, avevano fatto bene i varî Calvino, Zwingli, John Knox, battisti, anabattisti e tutti gli altri.

«La Chiesa» – diceva – «ha bisogno di questa pluralità di carismi: ci sono i domenicani, ci sono i francescani, ci sono i salesiani… poi ci sono i protestanti, gli anglicani e tutte le altre confessioni religiose».

Quando il mio amico ha detto questa frase, i miei sensi di ragno hanno iniziato a pizzicare (mi succede sempre, da quando sono stato morso da un papa radioattivo).

In realtà, più che i sensi di ragno, a pizzicare era il mio «sensus fidei» (che è quella cosa strana di cui parlavo in quest’altra occasione).

Perché?

È vero che la Chiesa è stata (ed è tuttora) spesso in crisi…

È vero che ci sono stati sacerdoti cattivi, vescovi peggiori e papi pessimi…

È vero che sotto al Cupolone ci sono un sacco di problemi, tra avidità, sete di potere, simonia e peggio ancora…

…però la nascita di nuove confessioni cristiane non è indice di una «pluralità di carismi», ma di una emorragia.

I protestanti non hanno fatto in tempo a separarsi dalla Chiesa cattolica, che si sono divisi in due, quattro, otto, sedici, trentadue, sessantaquattro, centoventotto, … quattromilanovantasei chiese autocefale, ognuna delle quali ha creduto di essere «un po’ meglio» della precedente – con buona pace dell’unità dottrinale (*).

(*) (Per quanto a molti possa sembrare un problema minore, io credo che la mancanza di un’autorità dottrinale univoca sia uno dei problemi più grandi non solo delle chiese protestanti, ma anche di molte religioni non cristiane: penso, ad esempio, al mondo dell’Islam. Provate a immaginare se ci fosse un fondamentalista cattolico che decidesse di farsi saltare in aria «in nome di Gesù». Non avremo ancora finito di pulir via i resti carbonizzati dell’attentatore, che il Papa avrebbe già condannato il gesto con fermezza… al contrario, uno dei problemi dell’Islam è che tra i musulmani non c’è una voce autorevole capace di condannare in maniera definitiva e risolutoria il fondamentalismo, perché continuano ad esistere molte madhāhib – scuole giuridico-religiose – che sostengono questa posizione radicale; per chi volesse approfondire, lo rimando ad uno dei discorsi più importanti di Benedetto XVI, tenuto il 12 settembre 2006 nell’aula magna dell’Università di Regensburg)

~

Però.

Se dicessi che l’obbedienza serve solo per consentire l’unità dottrinale, direi una mezza verità.

C’è una cosa ancor più importante dell’unità dottrinale.

Perché all’interno della Chiesa cattolica i religiosi – oltre a fare voto di povertà e castità – ne fanno uno di obbedienza?

Qual è il senso?

Neanche a dirlo, il senso non è il servilismo.

Né la sottomissione.

Né il dominio dei sottoposti da parte dei superiori.

Il senso del voto di obbedienza è la ricerca dell’umiltà (prima che a qualcuno vengano in mente idee fuorvianti, lo rimando alla pagina del blog in cui spiegavo cos’è l’umiltà).

Come ha detto il medievista italiano Franco Cardini (classe ’40):

Nel Medio Evo i valdesi, i catari, gli spirituali, i fraticelli, non seppero resistere all’orgoglio, non seppero fare come Francesco d’Assisi che riuscì a conciliare l’evangelismo più radicale con la fedeltà più ferma alla Chiesa gerarchica.
No, non amo l’orgoglio di chi vuole presentarsi come “vera Chiesa”.
L’obbedienza, per me, è ancora una capitale virtù cristiana.
Dipende, naturalmente da chi ci chiede di obbedire: Hitler e Stalin sono una cosa.
Santa Romana Chiesa è un’altra cosa.
A lei vale la pena di obbedire.

(FRANCO CARDINI, intervistato in VITTORIO MESSORI, Inchiesta sul cristianesimo: sei tu il Messia che deve venire?, Società editrice internazionale, Torino 1987, p.253)

Non si deve essere umili (mezzo) per essere obbedienti (fine)…

…ma si deve essere obbedienti (mezzo) per imparare ad essere umili (fine).

L’umiltà è una virtù cardine del cristianesimo.

Senza umiltà non c’è santità.

3 • Obbedire è un retaggio del passato?

Nel 1965, don Lorenzo Milani (1923-1923) ha pubblicato un libro intitolato: «L’obbedienza non è più una virtù».

Il volumetto è una raccolta di testi sull’obiezione di coscienza al servizio militare di leva, che all’epoca era obbligatorio in Italia…

…purtroppo però, la frase di don Milani è stata più e più volte estrapolata dal contesto, ed oggi viene citata da un po’ tutti – cristiani e non – quando vogliono fare «gli originali».

teologa originale

Neanche a dirlo, i cristiani più semplici non hanno problemi con l’obbedienza

…invece, in certe facoltà teologiche e in altri ambienti “intellettualoidi”, l’obbedienza è spesso «l’elefante nella stanza».

In modo più o meno esplicito, serpeggia la convinzione che l’obbedienza sia in antitesi con l’esercizio della creatività e del lavoro speculativo.

E non parlo solo dell’epoca in cui viviamo.

Già nel 1929, il filoso e teologo russo Sergej Bulgàkov (1871-1944) scriveva queste righe:

Può sembrare infatti che l’obbedienza ecclesiale sia una sorta di schiavitù spirituale e la propria sottomissione alla verità ecclesiale condanni ad una pigrizia spirituale e persino ad un letargo, e perciò l’ecclesialità sia un comodo cuscino per l’intelletto e la volontà.
Un tale preconcetto è sbagliato alla radice, perché l’ecclesialità viva esige e presuppone la più alta tensione delle forze creative dell’uomo.

(SERGEJ BULGAKOV, «Il volto creativo della Chiesa», articolo del 1929, in SERGEJ BULGAKOV, Lo spirituale della cultura, Lipa, Roma 2006, p.69)

Ma è possibile essere obbedienti ed al contempo essere creativi?

O è un ossimoro?

L’obbedienza è un ostacolo o è un aiuto?

Qualche anno fa, nel suo commento all’Inferno di Dante, Franco Nembrini (pedagogista e saggista italiano, classe ’55) secondo me ha centrato il punto:

Apro qui una parentesi importante, per provare a capire che cosa sia la virtù dell’obbedienza, che in un’epoca di esaltazione dell’autonomia dell’individuo come la nostra rischia di apparire priva di senso: perché dovrei obbedire volontariamente a qualcuno?
Perché dovrei rimettere una decisione che riguarda la mia vita a qualcun altro?
Lo dico in estrema sintesi: perché ho riconosciuto che l’altro mi comprende più di quanto mi comprenda io stesso.
[…]
C’è infatti un modo di obbedire che è magari generoso, ma sterile: l’obbedienza di chi, di fronte all’indicazione autorevole di un superiore, si sottomette meccanicamente, rinuncia alla propria esigenza, alle proprie ragioni.
L’obbedienza vera invece è quella di chi, pur convinto della bontà della propria posizione, accetta, per la certezza della bontà della strada intrapresa, di seguire l’indicazione di chi ha il compito di guidare il convento, o l’ordine, o la Chiesa stessa.
Questa obbedienza vera, sana, non rinuncia alle proprie ragioni, ma accetta di verificarle nella pazienza della sottomissione, certa che si tratti di un cammino di conversione.
Da una parte, se nelle mie ragioni c’è qualcosa di vero, nel tempo emergerà; ed emergerà in maniera più feconda, più utile, che neanche se mi fossi ostinato ad affermarle adesso.
Basta pensare alla storia della Chiesa: quanti eretici avevano delle buone ragioni.
Ma la pretesa di affermarle immediatamente, contro tutti e contro tutto, ha finito per impoverirle, per renderle meno feconde, motivo di divisione e non di crescita per tutti.
Ma soprattutto, l’obbedienza vera è un’occasione di crescita, di maturazione della mia persona.
Perché accettare il sacrificio della mia posizione mi constringe in un certo senso ad approfondire la ragione, il contenuto profondo della mia adesione al cammino intrapreso.

(FRANCO NEMBRINI, dal suo commento al Canto XXVII in DANTE ALIGHIERI, Inferno, Mondadori 2018, pag.545)

Ecco.

Contrariamente ai luoghi comuni e al sentito dire, la storia della Chiesa è piena di testimonianze del fatto che dove maggiore è stata l’obbedienza, maggiori sono stati i frutti spirituali.

Lutero aveva le sue buone ragioni (eccome se ne aveva).

Eppure, il suo non essere stato obbediente ha lacerato la Chiesa.

Al contrario, quanti frutti ha portato l’obbedienza di Francesco d’Assisi!

Quanti santi ha prodotto la regola benedettina!

Quanta bellezza è fiorita intorno a uomini e donne obbedienti, come Leopoldo Mandić, Teresa di Lisieux, Pio da Pietralcina, mia nonna!

Quanti frutti di grazia ci ha ottenuto Cristo, che «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Ebrei 5,8-9; cfr. anche Matteo 11,29)!

Insomma, l’esercizio dell’obbedienza è un grande aiuto per la vita spirituale:

  • rende umili;
  • permette di rimuginare sui proprî pensieri;
  • aiuta ad accogliere la realtà, anche quando è diversa da come ce l’aspettiamo;
  • e, perché no, ci ricorda che la vita cristiana non è tanto questione di «sforzi» da compiere, ma di una grazia da scoprire:

La tradizione plurisecolare della Chiesa ha sintetizzato nei tre consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza lo stile di vita scelto da Gesù.
Spesso interpretiamo i consigli come uno sforzo in più da fare nel contesto di una esistenza di per sé già faticosa.
Al contrario, come insegnava san Doroteo di Gaza, essi sono doni spontanei che si fanno al Re del cielo, e non imposte da pagare.
[…]
[i consigli evangelici possono] fungere da rilevatori del livello della nostra libertà interiore.
L’obbedienza rivolge a tutti gli uomini la domanda: da chi dipendi davvero?
La povertà chiede: cosa desideri?
La castità infine: di chi sei veramente? Chi si prende cura di te?

(GIUSEPPE FORLAI, Vestirsi di luce : introduzione pratica alla vita nello Spirito, Paoline, Milano 2018, p.159)

4 • «Gerarchia», un’altra brutta parola

Così come la parola «obbedienza», anche la parola «gerarchia» è una brutta parola.

Se dico la parola «gerarchia», cosa vi viene in mente?

  • l’esercito
  • la mafia
  • i fascisti
  • i nazisti
  • le persone senza una coscienza

Nel processo tenutosi a Gerusalemme tra l’11 aprile e il 15 dicembre 1961, il funzionario nazista Adolf Eichmann (1906-1962), chiamato a rispondere dei rastrellamenti degli ebrei e di altri crimini, disse di «aver fatto solo il suo dovere» e di «avere obbedito» agli ordini che gli erano stati dati e alla legge (cfr. HANNAH HARENDT, La banalità del male : Eichmann a Gerusalemme, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2023, p.158).

eichmann

In un intervista del 1984, l’allora cardinale Joseph Ratzinger (1927-2022) diceva queste parole:

La Chiesa non è la nostra Chiesa, della quale potremmo disporre a piacimento; è invece la Sua Chiesa.
[…]
È qui l’origine della caduta del concetto autentico di “obbedienza”; la quale, secondo alcuni, non sarebbe neppur più una virtù cristiana, ma un retaggio di un passato autoritario, dogmatico, quindi da superare.
Se la Chiesa, infatti, è la nostra Chiesa, se la Chiesa siamo soltanto noi, se le sue strutture non sono quelle volute da Cristo, allora non si concepisce più l’esistenza di una gerarchia come servizio ai battezzati stabilita dal Signore stesso.
Si rifiuta il concetto di un’autorità voluta da Dio, un’autorità che ha la sua legittimazione in Dio e non – come avviene nelle strutture politiche – nel consenso della maggioranza dei membri dell’organizzazione.
Ma la Chiesa di Cristo non è un partito, non è un’associazione, non è un club: la sua struttura profonda e ineliminabile non è democratica ma sacramentale, dunque gerarchica; perché la gerarchia basata sulla successione apostolica è condizione indispensabile per raggiungere la forza, la realtà del sacramento.
L’autorità, qui, non si basa su votazioni a maggioranza; si basa sull’autorità del Cristo stesso, che ha voluto parteciparla a uomini che fossero suoi rappresentanti sino al suo ritorno definitivo.
Solo rifacendosi a questa visione sarà possibile riscoprire la necessità e la fecondità cattolica di Chiesa dell’obbedienza alle sue legittime gerarchie.

(JOSEPH RATZINGER, intervistato in VITTORIO MESSORI, Rapporto sulla fede, Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2005, p.49)

C’è poco da fare: la Chiesa è gerarchica… ed è Gesù stesso che l’ha pensata in questo modo.

Questo significa forse che Dio agisce solo all’interno della gerarchia della curia romana?

Forse Dio tratta in modo diverso chi obbedisce e chi non obbedisce?

Forse Dio fa pagare una multa ai disobbedienti?

Ovviamente no.

Nella pagina del mese scorso citavo il brano del Vangelo (Giovanni 3,8) in cui Gesù dice che che «lo Spirito soffia dove vuole».

Cioè, parafrasando: «Dio fa un po’ quello che gli pare».

Suscita, ispira, risveglia cuori dentro e fuori dalla gerarchia della Chiesa.

lo Spirito Santo è libero e sovrano.

Però c’è un modo ordinario in cui la grazia agisce, ed un modo extra-ordinario.

O per dirla con le parole dello scrittore, filologo e linguista britannico John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973):

Dio non può essere limitato (nemmeno nell’ambito dell’edificio che ha fondato) – della qual cosa San Paolo è il primo esempio – e può usare qualsiasi canale attraverso il quale far arrivare la sua grazia.
Persino amare Nostro Signore, e chiamarlo Signore e Dio, è una grazia e può portare altra grazia.
Tuttavia, per non parlare solo di casi singoli, il canale principale deve essere quello istituzionale, altrimenti correrebbe il rischio di estinguersi nella sabbia.
Oltre al Sole c’è la luce della Luna (che può essere tanto brillante da permettere di leggere); ma se il Sole scomparisse, non si riuscirebbe più a vedere la Luna.

(JOHN RONALD REUEL TOLKIEN, da una lettera indirizzata al figlio Michael, 1 novembre 1963, in J.R.R. TOLKIEN, La realtà in trasparenza : lettere 1914-1973, Bompiani, Milano 2001, p.381)

Ecco.

Così come per l’«obbedienza», anche sulla «gerarchia» della Chiesa occorre fare reframing:

[Bisogna evitare] di trasferire alla Chiesa – anche nel suo essere un’«istituzione» composta di esseri umani ed inserita nella storia – criteri di comprensione e di giudizio che non riguardano la sua natura.
Anche se la Chiesa possiede una struttura «gerarchica», tuttavia tale struttura è totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo.

(GIOVANNI PAOLO II, lettera apostolica Mulieris Dignitataem, n.27 (15 agosto 1988))

5 • «Essere dominati» vs «obbedire liberamente»

Facciamo a capirci.

Che sia il Medioevo o il 2024, se una religione vuole dominare le persone, penso che sia «rimasta indietro col programma», e che abbia ancora molta strada da fare per la sua maturazione spirituale.

Su questo aspetto, ogni comunità religiosa dovrebbe farsi un serio esame di coscienza.

Qualche mese fa, ad esempio, parlavo degli abusi spirituali, che sono una piaga molto più grande di quanto si pensi all’interno della Chiesa cattolica.

Ma anche le altre religioni (*) non se la passano meglio sulla questione del «dominare»

musulmani

(*) (Disclaimer: prima che qualcuno si indigni per questa vignetta, gli suggerisco di leggersi alcuni casi di cronaca accaduti in Pakistan negli ultimi anni, dove molte ragazze minorenni sono state rapite, costrette a convertirsi all’Islam e poi a sposarsi contro la loro volontà: una tredicenne nel 2020, una quattordicenne nel 2020, una quindicenne nel 2022… come riporta uno di questi articoli, questi episodî capitano un migliaio di volte all’anno)

Comunque.

Tornando alla nostra religione.

Se è vero che gli abusi spirituali sono un problema gravissimo…

…è altrettanto vero che nella maggior parte delle parrocchie non c’è questo rischio… anzi, se proprio dovessi sbilanciarmi, direi che il pericolo è diametralmente opposto.

In che senso?

Nel senso che in molti contesti, il cristianesimo non solo non «domina» nessuno…

…ma si sta dissolvendo in un miscuglio tra una fede tiepida, una speranza mielosa e una carità all’acqua di rose, con una spolveratina di «love is love» qua e là.

A questo punto la domanda sorge spontanea: esistono solo queste due opzioni?

Si può uscire da questa polarizzazione?

Come si fa a non cadere né negli abusi spirituali, né in una religione petalosa che smette di essere una religione?

Beh.

Secondo me, si può partire dall’esempio dei santi.

E con questo, non intendo che «bisogna imitare l’“intransigenza” con cui i santi obbedivano».

E neanche cose del tipo: «Io non sono in grado di essere obbediente… vediamo che strategia seguiva san Teodoro d’Egitto!».

Non è questione di strategie.

Non è questione di tattiche.

E non è questione di sforzi.

E di cosa allora?

Commentando un verso del Paradiso di Dante, Franco Nembrini (che avevo già citato prima) ha scritto queste righe:

Da dove nasce l’obbedienza? Dall’esperienza di una bellezza.
Dentro un rapporto umano vero, bello, grande, obbedire è una gioia («quanto m’era a grato», DANTE ALIGHIERI, Paradiso, Canto XXI, v.22).
Quale richiamo per noi educatori!
Quante volte pretendiamo dai nostri figli o dai nostri alunni un’obbedienza alle regole solo perché “è così”; e loro, inevitabilmente, si impuntano.
L’obbedienza è una grande virtù; ma è figlia della gratitudine.

(FRANCO NEMBRINI, dal suo commento a DANTE ALIGHIERI, Paradiso, Mondadori, Milano 2021, p.494)

Che significa?

Significa che si può chiedere a qualcuno di obbedire a denti stretti

Si può costringere qualcuno a sottomettersi a collo torto e digrignando i denti…

…ma l’obbedienza porta frutto solo se si basa su un’esperienza.

Quale esperienza?

L’esperienza del fatto che obbedendo (a Dio, al mio superiore, al mio capo, etc.) posso anche perdere qualcosa, ma guadagno smisuratamente di più in umiltà, mansuetudine, magnanimità, mitezza, flessibilità, carità.

L’esperienza del fatto che la legge di Dio non serve per mutilare, ma per potare e rendere la mia vita più feconda.

Se l’obbedienza nasce da questi presupposti, allora non stupisce il modo in cui l’hanno vissuta tanti santi e sante lungo la storia della Chiesa.

Ad esempio.

Ecco cosa scriveva Teresa di Lisieux (1873-1897) nella sua autobiografia, pubblicata postuma nel 1898:

O Madre mia, da quali inquietudini ci si libera facendo voto di obbedienza!
Quanto sono felici le semplici religiose; essendo loro unica bussola la volontà dei superiori, esse sono sempre sicure di trovarsi sul giusto cammino, non devono temere di sbagliarsi anche se sembra loro certo che i superiori si sbagliano.
Ma quando si smette di guardare la bussola infallibile, quando ci si allontana dalla via che essa indica di seguire con il pretesto di fare la volontà di Dio che non illumina bene coloro che tuttavia fanno le sue veci, subito l’anima si smarrisce nelle strade aride dove l’acqua della grazia viene ben presto a mancare.

(TERESA DI LISIEUX, Storia di un’anima, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2015, versione Kindle, 73%)

Queste invece sono le parole del vescovo francese Francesco di Sales (1567-1622):

Chiniamo umilmente il collo sotto il giogo della santa obbedienza e accettiamo di buon cuore il peso; umiliamoci, perché bisogna sempre farlo, ma ricordiamoci sempre di fondare la generosità sugli atti di umiltà, altrimenti tali atti non varrebbero nulla.

(FRANCESCO DI SALES, Trattenimenti spirituali, XVI)

Queste, infine, le parole della mistica e assistente sociale francese Madeleine Delbrêl (1904-1964):

Per obbedire, non aspettare di essere d’accordo con il tuo superiore.

(MADELEINE DELBRÊL, «Alcide, o la “perfetta scatolina cranica”, guida semplice per semplici cristiani», in MADELEINE DELBRÊL, La gioia di credere, Gribaudi, Torino 2012, p.273)

Ripeto: non è questione di «sforzi».

Né di «fare i sottoni».

È questione di diventare sempre più somiglianti al Figlio che, come dicevo prima:

Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

(Ebrei 5,8-9)

Conclusione

A costo di essere ripetitivo, chiudo questa pagina con un brano del Deuteronomio che avevo già citato in altre due occasioni qui sul blog (quando parlavo dei desiderî e quando parlavo dei dieci comandamenti).

Il brano è questo:

Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: «Che cosa significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore, nostro Dio, vi ha dato?», tu risponderai a tuo figlio: «Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece uscire di là per condurci nella terra che aveva giurato ai nostri padri di darci. Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore, nostro Dio, così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi.

(Deuteronomio 6,20-24)

Parafrasando queste parole, alla luce di quanto ho scritto più sopra, si potrebbe dire:

Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: «Perché bisogna obbedire a Dio, al Papa, ai superiori, alla mamma, al babbo? Perché all’interno della Chiesa c’è una gerarchia? Perché tante volte devo obbedire anche se non sono d’accordo?», tu non risponderai a tuo figlio: «Perché sì!» oppure «Perché l’autorità è importante!». Invece, risponderai a tuo figlio così: «Tante volte mi è capitato di dover obbedire al mio capo in ufficio, anche se aveva torto marcio… Tante volte mi è capitato di dover obbedire a mio padre, anche se ero in disaccordo con lui… Tante volte mi è capitato di obbedire al mio padre spirituale, anche se non ero del tutto convinto… e tante volte ho fatto come diceva la mamma, anche se non ero persuaso dalle sue argomentazioni. Ognuna di queste volte, ho offerto a Dio il passo indietro che ho fatto… ho offerto a Dio una piccola mortificazione… ho offerto a Dio una piccola goccia di sangue… e, ti posso assicurare, figlio mio, che Dio mi ha ripagato cento volte tanto in umiltà, mansuetudine, magnanimità, mitezza, flessibilità, carità, e giorno dopo giorno continua a dilatarmi il cuore!»

sale

(Estate 2024)

Fonti/approfondimenti
  • GIUSEPPE FORLAI, Vestirsi di luce : introduzione pratica alla vita nello Spirito, Paoline, Milano 2018
  • MADELEINE DELBRÊL, La gioia di credere, Gribaudi, Torino 2012
  • TERESA DI LISIEUX, Storia di un'anima, Shalom, Camerata Picena (AN) 2008
  • FRANCESCO DI SALES, Siate santi... nella gioia! Testi scelti per cristiani immersi nel mondo, Itaca : Oratorium, Castel Bolognese (RA) 2018
  • VITTORIO MESSORI, Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo (MI) 2005
  • DANTE ALIGHIERI, Inferno (commentato da Franco Nembrini, illustrato da Gabriele dell'Otto), Mondadori, Milano 2018
  • DANTE ALIGHIERI, Paradiso (commentato da Franco Nembrini, illustrato da Gabriele dell'Otto), Mondadori, Milano 2021

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