1 • Come ci immaginiamo l’inferno?
Si fa presto a dire «inferno».
Nel corso dei secoli, infatti, ci sono state tante (troppe) persone che hanno avuto idee molto distanti tra loro su come/cosa siano gli inferi: romani, greci, vichinghi, egizi, cinesi, aborigeni australiani, nativi americani, etc.
A titolo di esempio, vorrei aprire questa paginetta con tre esempî di come l’inferno è stato rappresentato in tre opere di narrativa molto diverse tra loro.
Partiamo dagli anni ’90.
Terry Pratchett (1948-2015) e Neil Gaiman (1960-…) sono due dei miei romanzieri preferiti.
Nel 1990, i due autori hanno scritto a quattro mani «Good Omens. Le belle e accurate profezie di Agnes Nutter, Strega», un romanzo fantasy umoristico.
Per chi non lo sapesse, ricordo che Terry Pratchett si è dichiarato apertamente ateo in più di un’occasione.
Neil Gaiman invece è agnostico. Ho sempre pensato che su di lui potessero calzare bene le parole con cui, nel libro, viene descritto Newton Pulsifer, ovvero che:
[…] aveva provato a diventare ufficialmente ateo, ma non era riuscito a dimostrare né la resistenza granitica e riflessiva, né la fiducia necessarie per esserlo.
(TERRY PRATCHETT, NEIL GAIMAN, Good omens : le belle e accurate profezie di Agnes Nutter, strega, Oscar Mondadori, Milano 2019, versione Kindle, 43%)
Nel romanzo «Good Omens» si parla di molti temi cristiani:
- l’inferno e il paradiso;
- l’apocalisse;
- il giudizio finale;
- l’anticristo;
- il libero arbitrio;
- la redenzione.
Leggendo il libro, però, ho storto il naso più di una volta, perché il significato di quasi tutti questi termini è pressoché sovvertito:
- il paradiso è un un luogo noioso, dove non ci sono cinema, e la musica è rimasta indietro di quattro secoli;
- l’inferno è un luogo tutto sommato simpatico, dove c’è l’happy hour e concerti di musica al passo coi tempi;
- gli angeli sono dei burocrati un po’ noiosetti, che sbuffano nell’obbedire agli ordini che gli arrivano “dall’Alto”;
- i demoni sono buontemponi simpatici, alla moda, e con la battuta sempre pronta.
Il libro, neanche a dirlo, è una parodia umoristica…
…ma conosco tante (troppe) persone che, anche se non credono in Dio, pensano al bene e al male in questi termini.
E pensano all’inferno in questo modo.
~
Facciamo un salto temporale di una sessantina di anni.
Nel 1932, il filosofo e scrittore francese Jean-Paul Sartre (1905-1980) ha scritto il romanzo «La nausea».
Lo scrittore francese – ateo anche lui – ha scritto queste righe caustiche:
Nel 1787, in una locanda vicino a Moulins, moriva un vecchio, amico di Diderot, e formato dai filosofi.
I preti dei dintorni erano stremati: avevano tentato di tutto, invano; il brav’uomo non voleva i sacramenti, era un panteista.
Trovandosi a passare di là, il signor di Rollebon, che non credeva a niente, scommise col curato che in meno di due ore sarebbe riuscito a riportare il malato ai sentimenti cristiani.
Il curato accettò e perse la scommessa: abbordato alle tre del mattino, il malato si confessò alle cinque e morì alle sette.
«Siete dunque così forte nell’arte della polemica?», disse il curato. «Voi superate i nostri!».
«Non ho polemizzato», rispose Rollebon, «gli ho messo paura dell’inferno».
(JEAN-PAUL SARTRE, La nausea, Einaudi, Torino 2014, p.29)
La paura dell’inferno… un’arma invincibile!
Ha tenuto sotto scacco contadini, bifolchi, braccianti, servi della gleba, «villici lagnosi» (cit.).
O no?
Non so.
Noi uomini moderni abbiamo un’immagine molto ingenua dei nostri “retrogradi” antenati…
…io però non sono del tutto persuaso da questa semplificazione per cui gli uomini del passato fossero più stupidi di noi.
~
Facciamo un altro salto temporale, sta volta di sette secoli.
Nei primi decenni del 1300, Dante Alighieri ha scritto la «Divina Commedia».
Contrariamente a come oggi viene raffigurato l’inferno, ho sempre trovato geniale il fatto che per Dante:
- il Paradiso è un luogo caratterizzato dal calore, dal movimento, dal fuoco, simboli del dinamismo dell’amore di Dio, che è pieno di energia, vitale, generativo, fecondo;
- l’inferno invece è un luogo caratterizzato dall’oscurità, dal freddo, dal gelo, dal ghiaccio (*), simboli della staticità del Male, della sua assenza di vita, della morte spirituale di Lucifero, che “regna” sugli inferi intrappolato nel ghiaccio.
(*) (lo scrittore britannico Clive Staples Lewis ha ripreso lo stesso concetto nelle Cronache di Narnia, dove l’antagonista – la Strega Bianca – tiene prigoniera Narnia nella neve e nel ghiaccio)
~
Bene.
Basta con le considerazioni letterarie.
Volevo solamente dare qualche “pennellata”…
…ma proseguiamo col discorso, che di carne sulla brace ce n’è fin troppa.
2 • Gesù, il Giudice
Il Credo – o Simbolo apostolico – è una delle più antiche «professioni di fede» della Chiesa.
In che consiste?
È un riassunto iper-sintetico, diviso in 12 articoli, delle cose in cui credono i cristiani:
- «in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra»
- «in Gesù Cristo, Suo unico Figlio, nostro Signore»
- «il quale fu concepito di Spirito Santo etc.»
- «patì sotto Ponzio Pilato etc.»
- etc.
Se qualcuno non crede (ALMENO!) nei 12 punti del credo, non è cristiano… ma un’altra cosa.
Ebbene.
Il settimo articolo del credo dice che:
[Gesù] verrà a giudicare i vivi e i morti.
(CREDO APOSTOLICO, VII articolo)
Perché i cristiani affermano che Gesù, alla fine dei tempi, giudicherà i vivi e i morti?
Beh.
Perché è stato Gesù stesso a dire questa cosa:
Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli.
Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi».
Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?».
E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato».
Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?».
Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me».
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
(Matteo 25,31-46)
Gesù di Nazaret – il dolce, mansueto, «mite ed umile di cuore» (Matteo 11,29), accondiscendente, arrendevole, docile, petaloso Gesù…
…dice che alla fine dei tempi:
- giudicherà tutti gli uomini secondo le loro azioni;
- alcuni uomini andranno «al supplizio eterno».
Il fatto che Gesù «giudichi» le persone è una cosa che facciamo fatica a digerire.
Nel nostro immaginario, quello che giudica è il Dio dell’Antico Testamento.
Il «castigo» di Dio, l’«ira» di Dio (*)… sembrano concetti molto lontani dalla predicazione di Gesù…
…curiosamente, però, all’inizio dei Vangeli, Giovanni il Battista si serve proprio di queste immagini per descrivere il Messia.
Secondo Giovanni il Battista:
[…] nella persona di Gesù, Dio ha impugnato il ventilabro ed è pronto a pulire la sua aia.
Questo è il battesimo portato da Gesù: battesimo per la conversione, ma anche battesimo in Spirito santo e fuoco.
(ANDRÉ LOUF, Sotto la guida dello spirito, Qiqajon, Magnano (BI) 2005, p.8)
(*) (Sulla questione dell’«ira di Dio» lascio qui tra parentesi uno stralcio interessante del monaco trappista belga André Louf: «Per natura – dirà san Paolo – eravamo meritevoli d’ira” (Efesini 2,3). L’amore e la grazia sono eccezioni in rapporto all’ira […]. Altri passi del Nuovo Testamento ci illuminano maggiormente su questa ira di Dio, dicendoci in particolare che non si situa nel passato ma che deve ancora venire e ci attende nel futuro. Paolo utilizza spesso l’espressione “l’ira che viene” (Efesini 5,6; Colossesi 3,6), mentre Giovanni preferisce parlare dell’ira già venuta ma che non cessa di incombere sull’uomo (cfr. Giovanni 3,36). L’Apocalisse parla del “gran giorno dell’ira”, il giorno in cui Dio “darà da bere la coppa di vino della sua ira ardente” (Apocalisse 16, 19)» ANDRÉ LOUF, Sotto la guida dello spirito, Qiqajon, Magnano (BI) 2005, p.9)
E infatti, la questione del Giudizio è stata uno dei punti più importanti della predicazione cristiana, fin dalla chiesa delle origini.
«Dio giudicherà il mondo!»
Questa frase viene spesso associata a sentimenti di paura, inquietudine, coda di paglia…
Ebbene.
Ora non vorrei offendere nessuno.
Ma se qualcuno – pensando al giudizio – avverte queste sensazioni, è semplicemente un pagano.
Non lo dico in modo denigratorio.
Né moralistico.
Quando dico «pagano», intendo semplicemente una persona che non ha ancora conosciuto il Dio di cui parla Gesù.
A questo punto qualcuno potrebbe chiedere: «Scusa, Sale, invece cosa dovrebbe pensare un cristiano del Giudizio finale?».
A me ha molto colpito quello che ha detto a riguardo Benedetto XVI nella sua enciclica sulla speranza cristiana:
La prospettiva del Giudizio, già dai primissimi tempi, ha influenzato i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio.
(BENEDETTO XVI, Lett. enc. Spe Salvi, n.41)
[…] la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli.
(BENEDETTO XVI, Lett. enc. Spe Salvi, n.43)
L’immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un’immagine terrificante, ma un’immagine di speranza; per noi forse addirittura l’immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un’immagine di spavento? Io direi: è un’immagine che chiama in causa la responsabilità.
(BENEDETTO XVI, Lett. enc. Spe Salvi, n.44)
Dio Padre è un Dio giusto – quindi buono.
Dio Padre è un Dio buono – quindi giusto.
Un cristiano, dinanzi al pensiero che Dio Padre giudicherà il mondo, dovrebbe essere felice e speranzoso.
Eppure, di solito, la mancanza di giustizia è la cosa che più ci fa rodere il culo:
Possiamo talvolta essere disinteressati al vero, o insensibili al bello; ma se patiamo un’ingiustizia, se la vediamo compiere, il nostro animo si ribella subito.
(FRANCO NEMBRINI, dal suo commento a DANTE ALIGHIERI, Paradiso, Mondadori, Milano 2021, p.454)
3 • Perché l’inferno?
Nel suo commento all’Inferno di Dante, l’insegnante e pedagogista italiano Franco Nembrini (classe ’55) ha scritto queste righe:
Ma com’è possibile – mi chiedevano sempre i miei studenti – che Dio, infinitamente misericordioso, abbia creato l’inferno?
La risposta può essere una sola: se non ci fosse l’inferno noi non saremmo uomini.
Non esisterebbe quel che ci caratterizza come uomini, che ci fa diversi dal cane e dal gatto: la libertà: se non ci fosse l’inferno, infatti, non ci sarebbe la possibilità di dire di no a Dio; perciò non ci sarebbe la libertà.
Saremmo come il nostro cane e il nostro gatto, governati unicamente dall’istinto, dalla biologia, dall’ambiente, dalle forze naturali che muovono il resto della natura.
Per questo l’inferno deve esserci.
Per questo «Giustizia mosse il mio alto fattore» (Canto III, verso 4) […].
[…]
Dio ci ha creati liberi per davvero, ci ha resi così liberi che possiamo dirgli di no, possiamo non riconoscere che dipendiamo da Lui – che è il peccato di orgoglio di Lucifero.
[…]
L’inferno non è, come troppo spesso è stato dipinto, la vendetta di un Dio prepotente contro chi non si è voluto inginocchiare davanti a Lui (e anche Dante in questo ha la sua fetta di responsabilità; ma perché troppo spesso è stato letto fermandosi alla superficie – le pene, i tormenti – senza andare al fondo di quel che voleva comunicare); l’inferno è l’uomo che, usando la libertà che Dio gli ha dato, può misteriosamente voltargli le spalle.
[…]
Il dolore dell’inferno non è un castigo, per così dire, aggiunto da Dio: è la conseguenza inevitabile di una posizione umana sbagliata.
(FRANCO NEMBRINI, dal suo commento a DANTE ALIGHIERI, Inferno, Mondadori, Milano 2018, p.129-130)
Che significa che «se non ci fosse l’inferno, noi non saremmo uomini»?
Tanto per cominciare, per capire cosa significano queste parole, dobbiamo sbarazzarci dell’idea dell’inferno a cui ci ha abituati la cultura pop: l’inferno non è una prigione con una temperatura molto elevata, pieno di persone che sono punite con i supplizî più atroci, torturate, scorticate o infilate a testa in giù in un pentolone di feci bollenti.
E che cos’è?
L’inferno è la condizione dell’uomo che rifiuta liberamente l’amore di Dio.
L’inferno è lo stato dell’uomo che rifiuta liberamente di avere una relazione con Lui.
L’inferno è l’assetto in cui si trova chi rifiuta liberamente di stare sotto il Suo sguardo, di gustare la Sua compagnia, di contemplare il Suo volto.
E se l’uomo è stato creato da Dio per godere di tutto questo…
…viene da sé che NON godere di tutto questo, non può che essere una pena, un tormento, la cosa più dolorosa che ci sia.
A questo punto, qualcuno potrebbe porgere la domanda delle domande.
Ovvero: è mai possibile che qualcuno scelga liberamente tutto questo? È possibile che qualcuno rifiuti liberamente l’amore di Dio?
Ebbene, la risposta è sì.
Se la risposta fosse no, gli uomini non sarebbero dotati di libero arbitrio (che è quella cosa di cui ho parlato qui).
Cioè – come diceva Nembrini – gli uomini non sarebbero uomini.
Mi rendo conto che ci troviamo di fronte a una questione enorme: la contrapposizione tra l’onnipotenza di un Dio buono e la libertà dell’uomo.
Come si fanno a conciliare tra di loro?
Da un lato, Dio è onnipotente e infinitamente buono, e governa ogni cosa con saggezza e amore…
…dall’altro lato, l’uomo è stato creato da Dio veramente libero: libero di accogliere il Suo amore… e libero di rifiutarlo.
La nostra difficoltà nel tenere insieme queste due verità (l’onnipotenza e la bontà divina da un lato… e la libertà umana dall’altro) però non è un limite…
…anzi, forse è un segno che stiamo dicendo qualcosa di vero sul mistero di Dio, che supera le capacità della mente umana (senza però contraddirla) (cfr. JEAN DANIELOU, Dio e noi, Rizzoli, Milano 2009, versione Kindle, 33-34%).
La realtà spesso è paradossale.
La vita spesso è paradossale.
Io sono un paradosso.
E lo sei anche tu che stai leggendo.
Se c’è una cosa che però NON è paradossale, è proprio l’esistenza dell’inferno.
Dio non è uno schiavista.
Non vuole avere con me e con te un rapporto di dominio.
Non ci vuole sottomessi, ma liberi.
E proprio per questo, ammette la possibilità del nostro «no».
L’inferno è lo stato dell’anima in cui si realizza questa possibilità: il rifiuto libero e definitivo dell’amore di Dio, con tutto ciò che questo comporta.
Qualcuno potrebbe obiettare: «Ma come può Dio essere così cattivo?».
Non è questione di cattiveria…
…è questione che, senza libertà, non c’è amore.
Sapete come si chiama l’amore quando non c’è libertà?
Si chiama «stupro».
Si dà il caso che Dio sia amore… quindi non può che lasciare i suoi amati liberi di corrispondere o meno a questo amore:
[Dio è quella persone che] ci lascia le chiavi di casa e ci dice: «Tu non sei il padrone, ma io ti tratto come se tu fossi mio figlio e ti do fiducia».
Questo è il motivo del perché può accadere che io uccida mio fratello e nessun fulmine dal cielo mi folgori in quell’istante.
La nostra libertà è vera, non è finta.
La nostra libertà non è come quando si prende la patente, e l’istruttore seduto a fianco ha i comandi per intervenire in extremis.
Quanto sarebbe comodo poter dire: «Se sbaglio, frena il Signore».
No, non funziona così.
La nostra libertà è vera a tal punto che possiamo andare a sbattere e farci male.
È vera al punto che possiamo perderci, e perderci per sempre, perché non potrebbe esistere l’amore senza la libertà vera.
E se ciò che ci compie è l’amore, l’amore esige la libertà.
Questo è il motivo per cui, nella storia della Chiesa, è stata più volte considerata affascinante l’idea di pensare che l’inferno non esista, o se esiste è vuoto. Ma ciò sarebbe una contraddizione della logica dell’amore. Se non esiste l’inferno, non esiste nemmeno l’amore perché non saremmo liberi.
L’amore è un Dio onnipotente che si consegna a noi al punto di poter essere rifiutato per sempre.
Rischia!
(LUIGI MARIA EPICOCO, Sale non miele : per una fede che brucia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2017, p.54)
Nel libro dei Proverbi (scritto svariati secoli prima di Cristo) c’è un verso in cui Dio dice:
Chi pecca contro di me, danneggia se stesso.
(Proverbi 8,36)
Dio non è l’ufficiale di Polizia Municipale che fa le multe.
Dio è amore.
L’unico modo per corrispondere all’amore è essere liberi di poterlo accogliere o rifiutare.
L’inferno è la possibilità che Dio offre ad ogni uomo di rifiutare il Suo amore.
Tant’è che Nembrini, nel commento all’ultimo canto dell’Inferno (quello in cui compare Lucifero) scrive queste righe:
Questo infatti è l’inferno: la realizzazione compiuta di quello che abbiamo cercato.
In questo è suprema giustizia: hai lavorato tutta la vita per i soldi, allora all’inferno sarai ricchissimo; ma là la verità di ogni cosa sarà resa evidente, e allora saprai che i soldi sono sterco, e quindi avrai montagne di sterco di cui cibarti per l’eternità.
Questa è la legge del contrappasso, la legge della giustizia: avrai ciò che hai chiesto, nella sua verità.
(FRANCO NEMBRINI, dal suo commento a DANTE ALIGHIERI, Inferno, Mondadori, Milano 2018, p.678)
A tal proposito, vi suggerisco caldamente la lettura del libro «Il grande divorzio» (*) di Clive Staples Lewis (1898-1963).
(*) (Nonostante il titolo… no, il libro non parla di matrimonî e divorzî. Lewis ha scelto questo titolo perché tra il 1790 e il 1793 William Blake aveva scritto «Il matrimonio del cielo e dell’inferno», una raccolta di testi in prosa in cui il poeta inglese ha voluto rovesciare le idee tradizionali del bene e del male… e, visto che l’idea alla base del libro di Blake era una fregnaccia, Lewis ha usato questo titolo ironico per dire che tra il cielo e l’inferno non esiste alcun «matrimonio»; cfr. CLIVE STAPLES LEWIS, Il grande divorzio : un sogno, Jaca Book, Milano 2014, p.13)
Per usare un’analogia, l’idea alla base del libro è questa: le porte dell’inferno sono chiuse dall’interno, non dall’esterno.
All’inferno non c’è gente imprigionata.
Non ci sono catene.
Non ci sono sbarre da spezzare.
Non ci sono guardie da cui scappare.
All’inferno ci sono persone che hanno scelto di starci di loro spontanea volontà.
E che – messe di fronte alla possibilità di gustare la gioia del paradiso – rifiutano.
Insomma, per usare le parole dello scrittore e filosofo francese Albert Camus (1913-1960) – che tra l’altro era ateo:
L’inferno è un favore speciale riservato a chi lo ha chiesto molto.
(originale: L’enfer est une faveur spéciale qu’on réserve à ceux qui l’ont beaucoup demandé.)
(ALBERT CAMUS, Carnets II (gennaio 1942 – marzo 1951), Parigi, Gallimard 1964, p.254)
4 • Obiezione #1: Chi non è cristiano va all’inferno?
Una delle obiezioni più classiche che spesso sento nei confronti dell’inferno è questa: chi non è cristiano, va all’inferno?
Dunque.
Tanto per cominciare: l’inferno non se l’è inventato la Chiesa cattolica.
È una realtà di cui parlano tante tradizioni religiose e culturali, molte delle quali precedono cronologicamente il cristianesimo:
- nella religione egizia chi fallisce il giudizio dopo la morte è condannato a essere divorato da Ammit, un’entità mostruosa;
- nella religione della greca antica ci sono l’Ade (il regno dei morti) e il Tartaro (luogo di punizione delle anime malvagie);
- nella religione norrena c’è l’Hel, dove finisce chi non muore con onore in battaglia;
- nel buddhismo e nell’induismo ci sono i Naraka, mondi sotterranei in cui le persone che si sono comportate male sono condannate alla sofferenza;
L’idea che esista un luogo o stato di sofferenza destinato a chi si allontana dal bene accompagna la storia umana fin dagli albori.
L’idea di una conseguenza per il male e per l’allontanamento dal bene è universale.
La sua origine non ha nulla a che vedere con la «Chiesa brutta e cattiva che ha inventato questo luogo per spaventare le persone».
La sua origine, secondo me, ha proprio a che fare con l’esistenza di una legge morale oggettiva (di etica e morale avevo parlato in quest’altra occasione).
In realtà, non solo “secondo me”.
Diceva qualcosa di simile anche il giurista e storico italiano Arturo Carlo Jemolo (1891-1981):
Sono tra quelli che pensano sia impossibile fondare qualsiasi morale solida, praticabile sempre e comunque anche dall’uomo “comune”, senza una credenza nell’aldilà e, dunque, in un giudizio e in una giustizia oltre le soglie della morte.
Ciò che mi preoccupa molto nella catechesi cattolica odierna è la quasi scomparsa della meditazione delle cose ultime: morte, giudizio, paradiso, purgatorio, inferno.
Dell’inferno, anzi, a molti teologi è in orrore il nome stesso; eppure Gesù parla spesso di questa possibilità terribile che è data all’uomo, in nome della sua stessa dignità di uomo libero, di scegliere tutto, anche di perdersi per sempre.
(ARTURO CARLO JEMOLO, intervistato in VITTORIO MESSORI, Inchiesta sul cristianesimo: sei tu il Messia che deve venire?, Società editrice internazionale, Torino 1987, p.57)
Comunque.
A prescindere dal fatto che voi siate d’accordo o meno con quest’ultima affermazione…
…resta il fatto che l’inferno non è un’invenzione della Chiesa.
Anzi.
Per di più.
La Chiesa non ha mai detto che «chi non è cristiano va all’inferno».
Riprendendo le parole di Gesù (in Matteo 25,31-46, che ho citato sopra), i criterî su cui si basa il Giudizio finale sono:
- «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare»
- «ho avuto sete e mi avete dato da bere»
- «ero straniero e mi avete accolto»
- «ero nudo e mi avete vestito»
- «ero malato e mi avete visitato»
- «ero in carcere e siete venuti a trovarmi»
Tant’è che già nel IV secolo Agostino d’Ippona (354-430) scriveva queste righe:
[la famiglia redenta di Dio] si ricordi che tra i nemici si nascondono dei suoi futuri concittadini, e perciò mentre cammina a fianco di loro non giudichi infruttuoso sopportarli come nemici nell’attesa che si manifestino per quel che sono.
Così durante il suo terreno pellegrinaggio si ricordino che (la città di Dio) ha nel suo seno alcuni a lei uniti nella comunione dei sacramenti, ma che non sono associati alla sua gloria nell’eterna felicità dei santi.
(AGOSTINO DI IPPONA, La città di Dio, Edizioni Paoline, Roma 1973, Libro XIV, III, p.756)
A questo punto, qualcuno potrebbe dire: «Ma scusami, Sale, come la mettiamo con tutti quei passaggi del Vangelo nei quali Gesù parla di sé stesso come “criterio esclusivo” per conoscere il Padre, per vivere, per portare frutto, per salvarsi»… ad esempio:
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
(Giovanni 14,6)
Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
(Giovanni 15,5)
In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
(Giovanni 10,7-9)
Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.
(Matteo 10,32-33)
«Insomma, Sale… per salvarsi bisogna credere in Gesù o no?».
Dunque.
Qui si apre una questione di ecclesiologia abbastanza complessa.
Ancora una volta, per rispondere in modo sensato a interrogativi simili, occorre tenere insieme TUTTE le parole di Gesù, senza fare «cherry picking» (*).
(*) (si tratta di una fallacia logica; è chiamata così perché «come quando da un cesto si scelgono solo le ciliegie migliori, un soggetto può selezionare solo le prove che sostengono la sua tesi, tralasciando volutamente o inconsciamente tutte le altre che la potrebbero confutare»; cit. dal mazzo di carte «Fallaciae»)
E come si fa a tenere insieme:
- le parole di Gesù sul Giudizio finale, in cui parla di una salvezza possibile anche per chi «non lo conosce»
- e le parole di Gesù quando parla dell’imprescindibilità del «passare da Lui» per ottenere la salvezza?
Secondo me, la vera domanda a questo punto è: che significa «essere con Cristo»?
Cos’è che fa sì che il cuore di una persona – anche se non fa parte formalmente della Chiesa – sia sostanzialmente abitato da Cristo e dalla sua presenza?
Dov’è il confine tra un rifiuto formale della Chiesa ed una adesione sostanziale alla persona di Cristo?
Tutte queste domande sono certamente complesse.
Da un lato, è vero che nel Vangelo sono presenti varî esempî di persone che – pur non appartenendo al gruppo degli apostoli – hanno fatto esperienza della grazia di Cristo:
[…] i Gentili hanno in sé il presentimento e la preconoscenza dell’immagine di Cristo, che si ridesta in essi con piena coscienza al primo contatto dello spirito (come nel caso della Samaritana e dei suoi concittadini, o del centurione Cornelio […]), e che «chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (Atti 10,35).
(SERGEJ NIKOLAEVIČ BULGÀKOV, Cristo nel mondo, Lateran University Press, Città del Vaticano 2020, p.49)
D’altra parte, negli ultimi anni, fin troppi teologi hanno detto un discreto numero di scempiaggini sulla questione.
Ora non vorrei appesantire inutilmente questo paragrafo… ma per chi fosse interessato lascio qui sotto un mini-paragrafo con una citazione di Joseph Ratzinger (1927-2022) sul cosiddetto «cristianesimo anonimo»:
Mini-paragrafo sul cosiddetto «cristianesimo anonimo» (clicca per espandere)
È dottrina antica, tradizionale della Chiesa, che ogni uomo è chiamato alla salvezza e può di fatto salvarsi obbedendo con sincerità ai dettami della propria coscienza, anche se non è membro visibile della Chiesa cattolica.
Questa dottrina che (ripeto) era già pacificamente accettata, è stata però eccessivamente enfatizzata a partire dagli anni del Concilio, appoggiandosi a teorie come quella del “cristianesimo anonimo”. Si è così arrivati a sostenere che c’è sempre la grazia se uno – non credente in alcuna religione o seguace di qualunque religione – si limita ad accettare se stesso come uomo.
Secondo queste teorie, il cristiano avrebbe in più soltanto la consapevolezza di quella grazia che, comunque, sarebbe in tutti, battesimo o no.
Sminuita l’essenzialità del battesimo, si è poi portata un’enfasi eccessiva sui valori delle religioni non cristiane, che qualche teologo presenta non come vie straordinarie di salvezza ma addirittura come vie ordinarie.
[…]
Simili ipotesi hanno ovviamente allentato in molti la tensione missionaria.
Qualcuno ha cominciato a chiedersi: “Perché disturbare i non cristiani, inducendoli al battesimo e alla fede in Cristo, visto che la loro religione è la loro via di salvezza nella loro cultura, nella loro parte del mondo?”.
In questo modo si è dimenticato tra l’altro il legame che il Nuovo Testamento instaura tra salvezza e verità, la cui conoscenza (lo afferma Gesù in modo esplicito) libera e quindi salva.
O, come dice san Paolo: «Dio nostro salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità”. La quale verità, prosegue subito l’Apostolo, consiste nel sapere che “uno solo è Dio e uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù che ha dato se stesso in riscatto per tutti” (1 Timoteo 2,4-7).
È quanto dobbiamo continuare ad annunciare – con umiltà ma con forza – al mondo d’oggi, sull’esempio impegnativo delle generazioni che ci hanno preceduto nella fede.
(JOSEPH RATZINGER, citato in VITTORIO MESSORI, Rapporto sulla fede, Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2005, p.211-212)
5 • Obiezione #2: Le persone all’inferno dovrebbero avere un’altra possibilità!
Forse, ancor più della precedente, questa è l’obiezione che ho sentito più spesso rivolgere, contro l’idea di una dannazione eterna:
- «Altro che buono! Se Dio manda qualcuno all’inferno è veramente cattivo!»
- «Le persone – anche se sbagliano – dovrebbero avere una seconda possibilità!»
- «Non era Gesù stesso che diceva che bisogna perdonare gli altri? Perché Dio non perdona chi sbaglia?»
Quando pensiamo al Giudizio Finale, abbiamo sempre in mente l’immagine del giudice austero, rigido e senza pietà…
Di fronte allo “scandalo” che qualcuno possa «non salvarsi», Clive Staples Lewis scriveva queste righe in uno dei suoi libri migliori (di cui consiglio caldamente la lettura):
Questa è la dottrina cristiana che io vorrei abolire dal cristianesimo, se potessi!
Ma ha il suo fondamento nella Sacra Scrittura e soprattutto nelle parole di Nostro Signore; è stata sempre professata dal cristianesimo e ha il suo fondamento pure nella ragione.
(CLIVE STAPLES LEWIS, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 2017, p.121)
Così come stanno le cose, questa dottrina è uno dei punti per cui il cristianesimo è accusato di barbarie e per cui la bontà di Dio è contestata.
Ci si dice che questa è una dottrina odiosa, anch’io la detesto dal profondo del cuore, e ci si ricorda le tragedie accadute alla umanità a causa della credenza di questa dottrina.
Non si parla però delle tragedie derivanti dal non credere in essa.
Per questi motivi, e solo per questi, vale la pena di discutere su questo argomento.
(CLIVE STAPLES LEWIS, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 2017, p.122)
Possibile che Dio sia così cattivo?
Proviamo a prendere sul serio la domanda.
Anzi, proviamo a riflettere teologicamente sulla domanda.
In che senso?
Facciamo finta per un secondo che Dio esista veramente.
E facciamo finta che Gesù sia veramente chi diceva di essere.
Facciamo un recap per i più smemorati.
Prima che il tempo esistesse, il Figlio se ne stava in santa pace, nell’alto dei cieli (Giovanni 1-2), insieme al Padre e allo Spirito Santo.
Non avevano bisogno di nulla.
Stavano lì, beati.
Felici.
In una gioia piena.
Traboccante.
Talmente traboccante, che ne è emersa la creazione.
Dio, nella sua Sapienza, ha pensato di donare ad alcune creature il libero arbitrio, per permettere anche a loro – se avessero voluto – di partecipare liberamente a quell’amore e a quella gioia piena.
Però, alcune di queste creature hanno iniziato a fare di testa loro, allontanandosi da Dio, non fidandosi di Lui, temendo che Dio – sotto sotto – fosse geloso (come spiegavo nella pagina del blog sul peccato originale).
Il Figlio – rendendosi conto della grande cavolata che stavano facendo queste creature – ha lasciato il seno del Padre.
Si è incarnato, assumendo la forma umana.
Si è fatto insultare, sputare addosso, corcare di botte, e uccidere, per mostrare agli uomini che, no, Dio non è cattivo, e anzi, prova tanta tenerezza e compassione per loro.
Ebbene.
Come scrive Lewis poche righe dopo:
Qui sta il vero problema: nonostante una così grande misericordia, c’è ancora l’inferno.
(CLIVE STAPLES LEWIS, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 2017, p.123)
Qualcuno potrebbe insistere dicendo che le persone che finiscono all’inferno meriterebbero una seconda possibilità.
Quando parliamo dell’inferno, però, non è questione di una «seconda possibilità».
Io credo che se un milione di possibilità avessero potuto procurarci anche un solo bene, ci sarebbero state date.
[…]
La fine deve venire una volta o l’altra e non occorre una gran fede per credere che l’Onniscente sa quando.
(CLIVE STAPLES LEWIS, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 2017, p.127)
Se pensi di essere «più buono di Dio» nel tuo elargire «seconde possibilità», hai un’immagine di Dio molto lontana dalla verità.
Dio sa meglio di me e di te se nel cuore di una persona c’è ancora una possibilità per accogliere il suo amore.
Per partecipare a quella gioia che Dio stesso vorrebbe condividere con le persone che gli sputano addosso e lo bestemmiano.
La risposta a coloro che fanno obiezioni alla dottrina dell’inferno, finisce per tradursi in una domanda: «Che cosa chiedete che Dio faccia?».
Di cancellare i peccati passati dei malvagi e offrir loro la possibilità di ricominciare da capo, eliminando ogni difficoltà e dando loro un aiuto miracoloso?
Ma egli lo ha fatto sul Calvario.
Perdonarli?
Ma essi non vogliono essere perdonati.
Lasciarli soli?
Ahimé, temo che egli faccia proprio questo.
(CLIVE STAPLES LEWIS, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 2017, p.131)
Dio non può che rispettare la libertà di chi lo vuole rifiutare.
Fa di tutto (molto più di quello che pensi tu) per accogliere tutti…
…ma non può fare nulla contro la libertà dell’uomo.
Qualcuno potrebbe obiettare che questa è una sconfitta per l’onnipotenza di Dio.
Ebbene… è così:
Si obietta che la perdita finale di un’anima significa la sconfitta dell’Onnipotenza.
Ed è così.
Creando esseri liberi, l’Onnipotenza fin dall’inizio si sottomette alla possibilità di questa sconfitta.
Ma io chiamo miracolo questa sconfitta: perché creare cose che possono contrapporsi al loro creatore, è l’azione più straordinaria e inimmaginabile che possiamo attribuire alla divinità.
Io credo di buon grado che i dannati, in un certo senso, sono trionfanti, ribelli fino alla fine; che le porte dell’inferno sono chiuse dal di dentro.
[…]
Essi godono per sempre di quella libertà orribile che hanno chiesto e sono perciò schiavi di loro stessi.
(CLIVE STAPLES LEWIS, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 2017, p.130-131)
Come scrivevo più sopra, senza libertà non esiste amore.
Dio vuole amare tutti…
…ma non vuole stuprare nessuno.
6 • Obiezione #3: Come fai ad essere felice in Paradiso, sapendo che qualcuno è all’inferno?
L’ultima critica all’inferno, in realtà, più che un’obiezione, è una preoccupazione dei cristiani che hanno preso sul serio l’esistenza di un Giudizio Finale.
È la preoccupazione per la salvezza delle persone a cui vogliamo bene.
In che senso?
Penso che alcuni di voi, come me, siano cristiani.
E alcuni di voi, come me, hanno amici che non credono in Dio, ai quali vogliono un sacco di bene.
Magari hanno anche parenti che non credono in Dio.
Forse genitori che non credono in Dio.
Figli che non credono in Dio.
Fidanzata, fidanzato, marito, moglie che non credono in Dio.
Insomma.
In un’epoca secolarizzata come la nostra, penso che sia abbastanza comune avere tra i nostri più cari affetti persone non credenti.
Ebbene.
A volte, capita che una di queste persone a noi vicine venga a mancare…
…e che quella persona non fosse proprio un modello di virtù…
…e che anzi, fosse molto lontana da uno stile di vita virtuoso…
La preoccupazione per la salvezza delle anime a cui vogliamo bene, spesso si accompagna ad un’altra serie di domande per nulla semplici… ovvero:
- «Quando io morirò, se mai andrò in Paradiso (volesse il Cielo), come posso essere felice sapendo che mio marito/moglie/figlio/amico-del-cuore/nonno/nonna è all’inferno?»
- «Sì, per carità… magari in Paradiso ci saranno Gesù, Giuseppe, Maria, mia moglie, i miei figli… ma se nonno Calogero è all’inferno, non mi rimarrà comunque un po’ di tristezza nel cuore?»
- «Anzi… immaginiamo pure che tutti i miei amici, parenti e conoscenti finiscano con me in Paradiso… ma se abbasso lo sguardo verso l’inferno, non sarò comunque un po’ triste a vedere degli sconosciuti che si trovano in una situazione di tormento eterno?»
- «Come può Dio essere felice in Paradiso, sapendo che qualcuno è all’inferno?»
Mi sono posto spesso queste domande.
E per lungo tempo, sono state domande alle quali non ho saputo trovare una risposta.
Poi – ancora una volta – è venuto in mio soccorso Clive Staples Lewis.
Nel Romanzo «Il grande divorzio», Lewis descrive l’inferno in modo molto diverso rispetto a come ce li immaginiamo.
Non ci sono né fiamme, né tormenti, né atroci grida.
L’inferno è una gigantesca città, vasta e desolata, in continua espansione, dove le anime vivono distanti tra loro, isolate e “in santa pace”.
Gli abitanti dell’inferno hanno la possibilità – se lo desiderano – di prendere un autobus che li conduca in Paradiso.
All’inizio del romanzo, il narratore sale a bordo di questo bus insieme ad altre persone.
Arrivati a destinazione, i passeggeri – tutti spiriti dannati – incontrano alcune anime del Paradiso, e riconoscono tra di esse alcuni loro conoscenti.
I capitoli del libro descrivono alcuni dialoghi tra dannati e beati.
Il filo rosso di ogni dialogo è il medesimo: lo spirito beato cerca di convincere l’anima dannata a lasciare alle spalle risentimenti e ostinazioni, e accettare la salvezza che gli viene offerta.
Purtroppo però, per un motivo o per l’altro – orgoglio, narcisismo, rancore, apatia, etc. – gli spiriti dannati rifiutano, e preferiscono rimanere attaccati ai proprî vizî e alle proprie illusioni.
Tra questi dialoghi, ce n’è uno che mi ha particolarmente colpito.
Si tratta di una conversazione tra un marito ed una moglie:
- Sarah Smith è un’anima beata: quando era viva, era una persona comune, come tante… dato che però, nella sua quotidianità, ha sempre vissuto in modo cordiale e caritatevole, in Paradiso è un’anima importante, degna di onore e di lode (cfr. CLIVE STAPLES LEWIS, Il grande divorzio : un sogno, Jaca Book, Milano 2014, p.115-117; per approfondire, potete leggere anche qui… e qui);
- suo marito Frank invece è uno spirito dannato: assume la forma di due differenti personaggi (questa scissione rappresenta le due facce della sua personalità); da un lato, Frank è un Nano, figura che simboleggia l’autocommiserazione e il desiderio di manipolare gli altri attraverso il senso di colpa; da un altro lato, Frank è un Attore tragico, immagine che rappresenta l’aspetto teatrale e melodrammatico del suo modo di comportarsi, per suscitare pietà e attenzione (cfr. qui… e qui… e qui).
Per tutta la sua vita, Frank ha vissuto in questo modo:
- manipolava emotivamente
- controllava
- influenzava col suo tono passivo-aggressivo
…tutte le persone che aveva intorno, e in particolare sua moglie Sarah.
Anche adesso che si sono incontrati da morti – ora che la moglie è splendente, e lui è l’ombra di sé stesso – Frank continua a reiterare questa dinamica…
…solo che, a differenza di quando erano ancora vivi, Sarah è ormai immune a questi sotterfugi…
…e chiede al marito:
«[Smetti di usare] la compassione degli altri nel modo sbagliato. Noi tutti l’abbiamo fatto un po’ sulla terra, capisci.
La compassione era considerata uno sprone che portava la gioia a soccorrere l’infelicità, ma essa può venire usata nel modo sbagliato.
Essa può venire usata per una specie di ricatto.
Quelli che scelgono l’abiezione non possono carpire la gioia come ricompensa, per compassione.
Vedi, io adesso sono consapevole.
Anche da bambino tu lo facevi.
Invece di chiedere scusa, tu andavi a fare il broncio in soffitta… perché sapevi che prima o poi una delle tue sorelle avrebbe detto ‘Non posso sopportare di pensare a lui che se ne sta lassù solo a piangere’. Tu usavi la loro compassione per ricattarle, e loro alla fine te la concedevano. E più tardi, quando ci siamo sposati… oh, non importa, se solo tu volessi fermarlo».
(CLIVE STAPLES LEWIS, Il grande divorzio : un sogno, Jaca Book, Milano 2014, p.127)
Sarah fa notare al marito che, comportandosi in questo modo, fa solo del male a sé stesso.
Gli fa notare che, ora che la sua anima beata partecipa della grazia di Dio, non è più ricattata dal tono passivo-aggressivo del marito e dai suoi piagnistei:
«Tu ti rendi realmente infelice.
Questo puoi farlo ancora.
Ma non puoi più comunicare oltre la tua infelicità.
Ogni cosa diventa sempre più sé stessa.
Qui vi è la gioia che non può venire scossa.
La nostra luce può assorbire la tua oscurità: ma la tua oscurità non può più ormai insidiare la nostra luce.
No, no, no.
Noi non vogliamo venire a te.
Hai realmente pensato che questo amore e questa gioia possano essere alla mercé di cipigli e di sospiri?»
(CLIVE STAPLES LEWIS, Il grande divorzio : un sogno, Jaca Book, Milano 2014, p.128)
Al termine del dialogo tra Sarah Smith e suo marito, il narratore del romanzo (verosimilmente C.S. Lewis) rimane rattristato da questa scena.
Come è possibile – si chiede – che la moglie rimanga così “insensibile” di fronte alla condizione miserevole del marito.
Inizia allora un dialogo fulminante tra lui e il suo accompagnatore (George MacDonald):
«È realmente tollerabile che ella possa restare insensibile alla sua abiezione, anche se è un’abiezione che lui stesso ha voluto?»
«Vorresti che egli avesse il potere di tormentarla? Egli lo ha già fatto nella loro vita terrena non per un solo giorno e nemmeno per un anno».
«Be’, no. Ritengo di non volerlo».
«Che cosa, allora?»
«Non saprei, Sir. Ciò che alcune persone dicono sulla terra è che la perdita finale di un’anima è accusata di spegnere tutta la gioia di quelli che sono salvi».
«Tu vedi che non è così».
«Penso in un certo modo che dovrebbe».
«Ciò suona molto compassionevole: ma tu vedi che cosa vi si nasconde dietro».
«Che cosa?»
«La domanda di amore e l’auto-imprigionamento con cui essi sono stati in grado di ricattare l’universo; fino a che essi consentano a essere felici (nei loro propri termini) nessun altro potrà provare gioia: questo potrebbe essere il loro potere finale grazie a cui l’Inferno riuscirebbe a vietare il Paradiso».
«Io non so che cosa certo, Sir».
«Figliolo, figliolo, deve essere una cosa o l’altra. D’altronde, deve venire il giorno in cui la gioia prevarrà e tutti i facitori d’infelicità non avranno più la capacità di infettarla: altrimenti codesti facitori d’infelicità potranno perennemente distruggere negli altri la felicità che essi respingono per sé stessi. So che è stupefacente dire che tu non vuoi accettare la salvezza che lasci anche una creatura nel buio, fuori. Ma rispetta questo uso dei sofismi oppure tu trasformerai un cane in una mangiatoia nel tiranno dell’universo».
(CLIVE STAPLES LEWIS, Il grande divorzio : un sogno, Jaca Book, Milano 2014, p.129-130)
Parafrasando il dialogo.
Ognuno è libero di rifiutare l’amore di Dio…
…ma se la tristezza di queste persone potesse addolorare quelle che scelgono di accogliere l’amore di Dio, le anime dannate sarebbero potentissime.
Avrebbero il potere – con il loro vittimismo – di impedire la gioia delle anime beate in Paradiso.
Se tutti i Frank che sono all’inferno avessero il potere – con le loro recriminazioni – di rattristare tutte le Sarah Smith che sono in Paradiso, il Paradiso non sarebbe tale.
Forse queste frasi possono sembrare un po’ dure.
Un po’ troppo severe…
Un po’ poco cristiane…
…è per questo che, poche righe dopo, Lewis spiega la differenza tra:
- l’azione compassionevole, cioè il desiderio attivo – mosso dalla grazia di Dio – che ti spinge a fare del bene a qualcuno, senza averne nulla in cambio;
- la passione compassionevole, cioè quella condizione che gli uomini hanno ereditato dal peccato originale, per la quale sono rattristati e feriti dal peccato degli altri.
Ebbene.
Si dà il caso che in Paradiso:
- l’azione compassionevole rimarrà per sempre, perché è ciò che ci rende somiglianti a Dio;
- la passione compassionevole sparirà, perché è solo un effetto della fragilità che l’uomo ha ereditato dal peccato originale.
…ma preferisco riportarvi le parole dell’autore:
«Bisogna distinguere. L’azione compassionevole può vivere sempre, ma la passione compassionevole non lo può.
La passione compassionevole, la compassione che noi subiamo meramente, il dolore che induce gli uomini a concedere quello che non può essere concesso e a lusingare quando essi dovrebbero invece dire la verità, la compassione che ha privato più di una donna della sua verginità e più di uno statista della sua onestà, questa deve morire. Essa viene usata come un’arma dagli uomini malvagi contro i buoni: quest’arma dev’essere infranta».
«E quale è l’altro tipo, l’azione?»
«Essa costituisce un’arma in un altro senso. Essa viaggia più veloce della luce dal più alto punto al più basso per portare calore e gioia, quale che ne sia il costo in sé. Essa tramuta le tenebre in luce e il male in bene. Ma essa non può, a motivo della scaltra lacrima dell’Inferno, imporre al bene la tirannia del male. Ogni malattia che si sottometta a essa può venire sanata, ma non potremo chiamare blu il giallo per compiacere coloro che insistono a voler avere l’itterizia, e nemmeno fare un letamaio del giardino del mondo per il bene di qualcuno che non riesce a sopportare il profumo delle rose».
(CLIVE STAPLES LEWIS, Il grande divorzio : un sogno, Jaca Book, Milano 2014, p.131)
La tristezza dell’inferno non può tenere sotto scacco la gioia del Paradiso.
Il rifiuto libero dell’amore di Dio da parte di qualcuno non può contaminare la gioia di chi vuole accogliere quell’amore.
L’inferno non può intaccare la beatitudine e il godimento del Paradiso.
L’inferno e tutto ciò che contiene – da un certo punto di vista – è inconsistente:
«Lei vuol dire che quell’Inferno – tutta quell’infinitamente vuota città – è giù in qualche piccola fessura come questa?».
«Certo. L’intero Inferno è più piccolo di un ciottolo del vostro mondo terrestre ma è altresì più piccolo di un atomo di questo mondo, il Mondo Reale [=il Paradiso].
Guarda quella farfalla.
Se ingoiasse tutto l’Inferno, l’Inferno non sarebbe grande abbastanza da causarle alcun danno o perché ne avvertisse il sapore».
«Esso sembra piuttosto grande quando uno ci si trova, Sir».
«E quand’anche tutte le solitudini, le angosce, gli odi, le invidie, le irritabilità che esso contiene si avvolgessero in una singola esperienza e si costruissero una corazza contro l’ultimo istante di gioia che è stato provato dall’ultimo in Paradiso, non acquisterebbe tanto peso da poter essere registrato.
Il cattivo non può aver tanto successo nemmeno nell’essere cattivo come veramente il buono nell’esser buono.
Se tutte le abiezioni dell’Inferno messe insieme penetrassero la coscienza di quel minuscolo anello giallo là sulla siepe, esse potrebbero venire assorbite senza traccia, quasi che una goccia d’inchiostro fosse stata versata dentro questo grande oceano al cui confronto il vostro terrestre Pacifico stesso è solo una molecola».
(CLIVE STAPLES LEWIS, Il grande divorzio : un sogno, Jaca Book, Milano 2014, p.132-133)
Conclusione
Di cose da dire ce ne sarebbero ancora tante.
Di domande aperte, forse, ce ne sono ancora di più.
Come al solito, per chi volesse ulteriormente approfondire, lo rimando alla bibliografia al termine della pagina.
Per il resto, passo e chiudo con un’ultima frase, del filosofo francese Fabrice Hadjadj (classe ’71):
Il fatto è che Dio sa soltanto amare.
Non condanna nessuno.
È questo che è atroce: colui che non lo ama è costretto a subirne le infinite carezze senza potergli rimproverare nulla.
Esse sono per lui peggiori che percosse.
Il “fuoco corporeo” che tormenta i dannati non è diverso dalla fiamma fisica che dilata i beati, ma le loro disposizioni contrarie trasformano questo ardore carnale in tenerezza per gli uni e in bruciatura per gli altri.
(FABRICE HADJADJ, Mistica della carne : la profondità dei sessi, Medusa, Milano 2020, p.182)
sale
(Autunno 2024)
- CLIVE STAPLES LEWIS, Il problema della sofferenza, Morcelliana, Brescia 2017
- CLIVE STAPLES LEWIS, Il grande divorzio : un sogno, Jaca Book, Milano 2014
- BENEDETTO XVI, Spe Salvi (enciclica sulla speranza cristiana)
- DANTE ALIGHIERI, Inferno (commentato da Franco Nembrini, illustrato da Gabriele dell'Otto), Mondadori, Milano 2018
- DANTE ALIGHIERI, Purgatorio (commentato da Franco Nembrini, illustrato da Gabriele dell'Otto), Mondadori, Milano 2018
- JEAN DANIELOU, Dio e noi, Rizzoli, Milano 2009
- VITTORIO MESSORI, Inchiesta sul cristianesimo: Sei tu il Messia che deve venire?, SEI, Torino 1987