1 • «Non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene!» (cit.)
«Così parlo Zarathustra» (composta tra il 1883 e il 1885) è probabilmente l’opera più celebre del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900).
Il protagonista del testo è il profeta iranico Zarathustra, che – dopo aver vissuto per dieci anni come eremita – torna tra gli uomini a predicare la sua dottrina.
Però, no… nell’opera non si parla dello zoroastrismo.
Lo Zarathustra di Nietzsche infatti non predica la religione da lui fondata, ma il pensiero del filosofo tedesco:
- la volontà di potenza
- il superuomo
- e via dicendo
Come Nietzsche, Zarathustra è un personaggio particolare.
Mooolto particolare.
Parla per paradossi – disprezza l’amore per il prossimo (cfr. il discorso «Dell’amore del prossimo»), dice che le persone compassionevoli sono stolte (cfr. il discorso «Dei compassionevoi»), si scaglia contro l’uguaglianza degli uomini (cfr. il discorso «Delle tarantole»), è discretamente maschilista (cfr. il discorso «Delle donnette vecchie e giovani»)…
Parla per immagini – funamboli, pagliacci, aquile, serpenti, cammelli…
Ora.
Senza che ci imbarchiamo nell’esegesi del baffuto filosofo tedesco, una cosa è chiara: Nietzsche era molto infastidito dal cristianesimo.
E questa cosa, traspare da ogni poro della pelle di Zarathustra:
Vi scongiuro, fratelli miei, rimanete fedeli alla terra e non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene!
Si tratta di avvelenatori, che lo sappiano o meno.
Spregiatori della vita, moribondi, essi stessi avvelenati, di loro la terra è stanca: possano scomparire!
(FRIEDRICH NIETZSCHE , Così parlò Zarathustra: Un libro per tutti e per nessuno, Mondadori, Milano 2013, versione Kindle, 11%)
2 • La religione ridotta a «un club umanitario, un sindacato o un partito politico»
Poche righe dopo, Nietzsche fa dire a Zarathustra:
Amo coloro che non cercano al di là delle stelle una ragione per tramontare e immolarsi, ma si offrono alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo.
(FRIEDRICH NIETZSCHE , Così parlò Zarathustra: Un libro per tutti e per nessuno, Mondadori, Milano 2013, versione Kindle, 11%)
Bene.
Partiamo da qui.
Che contro-argomentazione possiamo tirare fuori per rispondere alla provocazione del filosofo tedesco?
- Una frase del papa?
- Di un santo?
- Di un dottore della Chiesa?
- Di Gesù?
No, non scomodiamo nessuno di loro.
Nella paginetta di due settimane fa avevo citato un’intervista del 1987, in cui il giornalista Vittorio Messori (classe ’41) faceva due chiacchiere con il celebre scrittore Leonardo Sciascia (1921-1989).
Come già dicevo, Sciascia è stato uno dei più famosi intellettuali laicisti del secolo scorso.
Nel corso del botta e risposta tra giornalista e scrittore, a un certo punto c’è stato questo scambio:
(MESSORI) In un suo diario in pubblico, narra di essere capitato in un convegno di cattolici e di essere rimasto sorpreso dal fatto che, in giorni e giorni di parole, nessuno di questi credenti avesse fatto riferimento alla speranza di vita eterna.
Si chiedeva allora che cosa resta del cristianesimo senza questa tensione verso un futuro che vada al di là della storia contingente.
In questo modo, osservava, la fede si riduce a una mediocre, attardata, inutile dottrina sociale o moralistica.
(SCIASCIA) Sì, è così.
Una più giusta ripartizione della ricchezza, un certo liberalismo sessuale, un alleviamento delle sofferenze terrene: sono tutte cose che la Chiesa scopre ora, tardivamente e confusamente.
Ma perdendo di vista l’anima, la morte, l’aldilà.
Insomma, la trascendenza.
Troppa attenzione alla vita, ai beni della vita, alla ricerca della felicità: un cattolicesimo quasi a rimorchio di un vago radicalismo […].
[…]
Se più non si predica questa attesa di eternità, se si abbandona questa tensione, una religione finisce per somigliare a un club umanitario, magari a un sindacato o a un partito politico.
[…]
Questa specie di suicidio del cristianesimo attuale per me va benissimo.
(LEONARDO SCIASCIA, intervistato in VITTORIO MESSORI, Inchiesta sul cristianesimo: sei tu il Messia che deve venire?, Società editrice internazionale, Torino 1987, p.22)
Nel libro di Messori ho trovato un’altra intervista che mi ha lasciato una sensazione simile: quella a Luigi Firpo.
Per chi non lo conoscesse, Luigi Firpo (1915-1989) è stato uno storico e politico italiano.
Nella presentazione che precede l’intervista, Messori scrive che Firpo è «tra gli esponenti più noti e più prestigiosi di quella cultura neo-illuminista, liberal-democratica, ma non chiusa per principio al marxismo. Quella cultura nella quale si formarono tutti coloro che vennero su in certe scuole di una certa Torino, anzi di una certa Italia “illuminata”, agnostica, “post-cristiana”» (Ibidem, p.18).
Durante il botta e risposta tra i due, a un certo punto Firpo ha detto queste parole:
“Il mio regno non è di questo mondo”: questo è vero cardine del messaggio di Gesù, eppure è quasi totalmente dimenticato da tanti cristiani impegnati nella politica.
La febbre di chi vuole instaurare, subito, in terra, la Città di Dio, fa scordare la dimensione trascendente che è il fulcro stesso della fede.
Senza la vicenda della caduta di Adamo e della redenzione del Messia, senza il peccato e la grazia, senza la salvezza eterna che il Cristo promette al credente, senza sopravvivenza immortale, il cristianesimo si riduce a un non-senso.
Non si può sostituire l’escatologia con la sociologia, tacendo la promessa della liberazione dal peccato e della vita eterna: o, almeno, lo si può ma rendendo insignificante la fede.
(LUIGI FIRPO, intervistato in VITTORIO MESSORI, Inchiesta sul cristianesimo: sei tu il Messia che deve venire?, Società editrice internazionale, Torino 1987, p.19)
Anche Firpo, come Sciascia, non è cristiano.
Anche Firpo, come Sciascia, si domanda: «ma se il cristianesimo perde la speranza del cielo, cosa gli resta?».
La risposta è la stessa… niente:
I messianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni fondano sempre le proprie proposte sulla negazione della dimensione trascendente dello sviluppo, nella sicurezza di averlo tutto a propria disposizione.
Questa falsa sicurezza si tramuta in debolezza, perché comporta l’asservimento dell’uomo ridotto a mezzo per lo sviluppo […].
(BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in Veritate, n.17)
3 • Come faccio a sapere se sto andando nella direzione giusta? In base alla meta!
Ci sono state decine e decine di filosofi – fin dai tempi antichi – che si sono interrogati:
- sull’esistenza dell’anima;
- sull’immortalità dell’anima;
- sul libero arbitrio (esiste? o è tutto «già scritto»?)
- sull’esistenza di qualcosa dopo la morte (l’aldilà? l’eterno ritorno?).
Ecco.
Se ora ci mettessimo a fare una disamina di ciò che ha detto a riguardo Platone (anima immortale, della stessa sostanza delle Idee, teoria della reminescenza), Aristotele (anima vegetativa, sensitiva, razionale), Cartesio, Kant, Hegel, Nietzsche… secondo me non ne caveremo un ragno dal buco.
Molto probabilmente, il discorso sarebbe talmente lungo da risultare dispersivo e confusionario…
E – di conseguenza – ognuno rimarrebbe con le proprie idee…
Insomma, se volete approfondire, non vi mancherà modo di farlo in modo autonomo, andando a spulciarvi un po’ di autori.
Io qui vorrei farla più semplice, e far uso del senso comune (*).
(*) (da non confondere col «buonsenso»; il buonsenso è quello che ha tua nonna quando ti dice di mettere la canottiera)
Come spiegavo in quest’altra paginetta del blog, il senso comune è la capacità da parte dell’uomo di unificare i dati sensibili.
Ovvero, il senso comune è quello strumento con il quale la ragione conosce immediatamente – cioè SENZA una catena di ragionamenti – alcune verità nell’ordine naturale.
Facciamo qualche esempio…
Il senso comune…
- …mi fa dire con assoluta certezza che qui davanti a me c’è il computer dal quale sto scrivendo questa paginetta;
- …mi fa dire con assoluta certezza che in questo momento sono sveglio e non sto dormendo;
- …mi fa dire con assoluta certezza che mia madre mi vuole bene;
Fuor di battuta… cos’è che accomuna le affermazioni che ho scritto qui sopra?
La verità di queste affermazioni non si basa su una «dimostrazione scientifica»… ma sul senso comune.
Ecco.
Se è chiaro quanto detto, posso farvi leggere una frase di Franco Nembrini, insegnante, saggista e pedagogista italiano (classe ’55) –
La frase non ha alcuna evidenza scientifica…
…ma, anche in questo caso, la sua verità si fonda sul senso comune:
Non riconoscere che l’anima ha un destino, che l’anima ha un destino buono, svuota il presente.
Provate a pensarci: il valore del presente, il valore dei passi che facciamo da che cosa è determinato?
Come si fa a riconoscere se un passo nella vita è giusto o sbagliato?
Che cosa decide del fatto che un tratto di strada sia giusto o sbagliato?
La meta!
Il punto di arrivo!
Perfino geograficamente ci spostiamo così: capisco se la strada è giusta o sbagliata in funzione del punto dove devo andare; altrimenti è assolutamente indifferente.
[…]
Se non c’è una meta è tutto uguale.
È svuotato di significato il presente.
Se non c’è un destino, se non c’è una meta, se non c’è un futuro, il presente è vuoto.
Vuoto.
Vuoto di senso.
E ti tocca riempirlo di cose che non hanno senso, cioè che non hanno destino, non hanno scopo.
Se non c’è un destino finale, cioè se non c’è un futuro da attendere, se non c’è un compimento, se non c’è una meta […] niente di quel che viviamo ha senso.
È la scoperta che esiste un destino che rende significativi i passi e interessante azzeccarli, e giudicarli, e tornare indietro magari, e correggersi… diventa tutto interessante del presente, se è ordinato ad uno scopo.
Ma se lo scopo non esiste, è tutto uguale, cioè il presente è deserto e vuoto.
E amare o non amare, avere amici o non avere amici, …siccome alla fine tutto muore, è veramente indifferente.
(FRANCO NEMBRINI, Nel mezzo del cammin, puntata 11 – Inferno, Canto X: Gli eretici, minuto 44.30)
Io ho l’impressione che da quando gli uomini hanno perso di vista una dimensione metafisica dell’esistenza, non sono riusciti a trovare un’alternativa all’altezza…
Ho l’impressione che da quando abbiamo iniziato a credere che la vita finisce con la morte, non abbiamo iniziato a dare più importanza alla vita «qui giù»; al contrario, su ogni cosa (l’amicizia, il lavoro, l’amore, il tempo libero, l’ecologia, la giustizia, la solidarietà) si è poggiato uno strato di polvere… e di cinismo…
Da quando abbiamo iniziato a credere di essere solo “un mucchio di molecole” l’unica consolazione che siamo riusciti a trovare è quella di cui parlava Pascal:
La sola cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, ed è tuttavia la più grande delle nostre miserie.
Perché è proprio ciò che ci impedisce maggiormente di pensare a noi.
Senza di esso, la noia stessa in cui ci ritroveremmo ci spingerebbe a cercare un più solido mezzo di uscirne.
Ma i divertimenti ci svagano, e ci fanno arrivare inavvertitamente alla morte.
(BLAISE PASCAL, Pensieri, Rusconi, Sant’Arcangelo di Romagna (RN) 2014, p.118)
4 • Che cos’è la «vita eterna»?
Quando gli adulti ricevono il battesimo, c’è questo botta e risposta tra il celebrante e il candidato, all’inizio del rito:
- (celebrante) N., che cosa domandi alla Chiesa di Dio?
- (candidato) La fede
- (celebrante) E la fede che cosa di dona?
- (candidato) La vita eterna
Prendendo come spunto queste righe, Benedetto XVI faceva questa riflessione:
Stando a questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l’accesso alla fede, la comunione con i credenti, perché vedevano nella fede la chiave per «la vita eterna».
Di fatto, oggi come ieri, di questo si tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di socializzazione entro la comunità, non semplicemente di accoglienza nella Chiesa.
I genitori si aspettano di più per il battezzando: si aspettano che la fede, di cui è parte la corporeità della Chiesa e dei suoi sacramenti, gli doni la vita – la vita eterna.
(BENEDETTO XVI, Lett. enc. Spe Salvi, n.10)
L’espressione «vita eterna» può destare qualche perplessità.
Che significa?
Ma soprattutto… siamo sicuri che sia una cosa buona?
Prosegue il papa:
Ma allora sorge la domanda: Vogliamo noi davvero questo – vivere eternamente?
Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile.
Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo.
Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono.
La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile.
Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile.
(BENEDETTO XVI, Lett. enc. Spe Salvi, n.10)
Il vescovo e teologo Ambrogio (339-397), nel discorso funebre per la morte del fratello Satiro, scriveva che:
L’immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia.
(AMBROGIO DI MILANO, De excessu fratris sui Satyri, II, 47: CSEL 73, 274)
(Parentesi nerd: che poi accade lo stesso nel Silmarillion di J.R.R.Tolkien. Iluvatar crea per primi gli Elfi – che appunto sono immortali. E quando in un secondo momento crea gli Uomini, la condizione di «mortalità» non è una punizione, ma un dono: «Uno di questi doni di libertà consiste nel fatto che i figli degli Uomini abitano solo per breve tempo nel mondo vivente e che non sono vincolati a esso, e che lo lasciano presto, per andare dove gli Elfi non sanno. […] Morte è il loro destino, il dono di Ilùvatar, che, con il consumarsi del Tempo, persino le Potenze invidieranno»; cfr. Il Silmarillion, Quenta Silmarillion, cap.I «L’inizio dei giorni»)
Riprendo le parole di Benedetto:
C’è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che rimanda ad una contraddittorietà interiore della nostra stessa esistenza.
Da una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo.
Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva.
Allora, che cosa vogliamo veramente?
Questo paradosso del nostro stesso atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la «vita»?
E che cosa significa veramente «eternità»?
Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la «vita» vera – così essa dovrebbe essere.
A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è.
(BENEDETTO XVI, Lett. enc. Spe Salvi, n.11)
Cos’è la «vita»?
E cos’è l’«eternità»?
Spesso diamo una risposta banale a queste domande…
…e proprio per questo, pensiamo che il paradiso sia un posto banale e noioso…
…come quello della pubblicità del caffe Lavazza dei primi anni 2000:
La vita è un’altra cosa.
L’eternità è un’altra cosa.
La parola «vita eterna» cerca di dare un nome a questa sconosciuta realtà conosciuta.
Necessariamente è una parola insufficiente che crea confusione.
«Eterno», infatti, suscita in noi l’idea dell’interminabile, e questo ci fa paura; «vita» ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo.
Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità.
Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più.
Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia.
Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,22).
Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo (cfr. CCC 1025).
(BENEDETTO XVI, Lett. enc. Spe Salvi, n.12)
5 • Come sarà il paradiso?
Non so se vi ricordate il giornalista francese André Frossard (1915-1995) (avevo parlato di lui in quest’altra paginetta del blog, in cui raccontavo le storie di alcuni convertiti, una più straordinaria dell’altra).
In un’intervista in cui immaginava come sarebbe potuto essere il paradiso, Frossard scherzava in questo modo:
L’altro mondo – creda a me – sarà una bella sorpresa per gli intellettuali sofisticati.
Perché costoro non solo scopriranno con stupore che l’aldilà esiste davvero, ma si troveranno ad essere bersaglio della splendida ironia del Dio di Abramo e di Gesù.
Credo proprio, infatti, che questi signori troveranno nel loro paradiso proprio tutto ciò che in vita li aveva fatti inorridire: le bottiglie in plastica fatte a forma di Madonna, le bocce con il santuario e la neve quando si scuotono, le immagini di Maria e dei santi popolari da attaccare al cruscotto della macchina, i quadretti e le immaginette kitsch.
E il bello sarà che tutto quel bazar piacerà loro moltissimo, perché Dio avrà ridato loro quell’infanzia che avevano disprezzato.
Vivranno felici per sempre, beandosi tra la paccottiglia da bancarella di santuario.
(ANDRÉ FROSSARD, intervistato in VITTORIO MESSORI, Inchiesta sul cristianesimo: sei tu il Messia che deve venire?, Società editrice internazionale, Torino 1987, p.38)
Ora.
Ironia a parte.
Prima di provare a immaginare come sia il paradiso, secondo me dovremmo prima spazzare via dalla nostra immaginazioni tante rappresentazioni fuorvianti.
Molte di queste si basano film, serie tv e altri riferimenti culturali mondani, nei quali tendenzialmente il paradiso è un posto noioso, monotono… o peggio ancora, abitato da burocrati legalisti (avevo già citato il libro «Good Omens», di Neil Gaiman e Terry Pratchett, da cui è stata tratta la miniserie televisiva del 2019).
Purtroppo però, molte immagini fuorvianti del paradiso le abbiamo ereditate proprio dalla cultura cattolica.
Ad esempio.
Con tutto il rispetto.
Secondo me il paradiso di Dante Alighieri è angosciante (*): lo trovo insipido, discretamente opprimente, e maledettamente claustrofobico.
(*) (qualcuno potrà obiettare che «dovrei capirlo meglio», o che «dovrei leggere la versione commentata da Tizio o da Caio»… Non so… Qualche anno fa ho letto l’intera Divina Commedia, commentata da Franco Nembrini e illustrata da Gabriele dell’Otto. I commenti di Nembrini rimangono folgoranti e meravigliosi… ma continuo a pensare che il modo in cui Dante abbia rappresentato il Paradiso sia abbastanza infelice… Per chi non fosse convinto, può provare a chiedere a QUALSIASI studente italiano qual è la sua cantica preferita… e cosa pensa del Paradiso di Dante…)
~
Quando proviamo a immaginare «l’aldilà», le domande si sprecano:
- «Che età avremo in paradiso?»
- «Io vorrei rivedere nonna Olga con le fattezze di quando era mia nonna… e non come una ragazza di trent’anni! Si può fare?»
- «Ma se dono un rene a mio padre, in paradiso chi avrà il rene? Io o lui?»
- «Se vengo cremato, quando ci sarà la “risurrezione della carne”, Dio riuscirà a rimettere insieme la mia polvere?»
Alcuni di questi interrogativi sembrano un po’ sciocchi… ma in realtà nascondono una domanda molto seria: «come sarà il per sempre?».
Anche in questo caso, se non usciamo dai nostri schemi (e se non usciamo dalla logica della “temporalità”), otterremo sempre risposte fuorvianti.
La divinizzazione porterà la vita divina a tutti i momenti della propria storia personale, purificandoli e risuscitando il corpo anche in tutta la sua dimensione temporale: dal “pleroma” (=tempo della pienezza) attraverso i kairoi (=tempi “propizi”) anche il “chronos” (=tempo “normale”) viene redento.
Ciò avviene innanzitutto nella vita di Cristo, che è sempre Bimbo a Betlemme, dodicenne al Tempio, giovane lavoratore con Giuseppe, Crocifisso e Risorto.
L’eternità non sarà, quindi, una semplice giustapposizione quantitativa di istanti limitati, ma una perfetta unione degli istanti nella loro dimensione qualitativa, perfetta compresenza di passato, presente e futuro.
[…]
Tutto il bene compiuto, la verità cercata, la fedeltà alle relazioni, così come la bellezza anche fisica e i momenti di pienezza vissuti, possono essere ritrovati nell’incontro con Dio.
[…]
Il tempo è un mistero, come diceva Agostino, proprio perché il suo senso è la libertà.
(GIULIO MASPERO, Creatore perché padre : introduzione all\’ontologia del dono, Cantagalli, Siena 2012, p.93)
Secondo me, un buon modo per farsi un’idea del paradiso è tramite la teologia negativa.
Ovvero, un’indagine che metta a fuoco non tanto «ciò che il paradiso È», ma «ciò che il paradiso NON È».
Perché il paradiso, per dirla con le parole di Manzoni, è qualcosa che sorpassa in modo incommensurabile la nostra immaginazione e i nostri desiderî:
E l’avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desidéri avanza,
Dov’è silenzio e tenebre
La gloria che passò.
(ALESSANDRO MANZONI, Il cinque maggio, 1821, vv.91-96)
Conclusione
In un libro del 1977, il cardinal Ratzinger scriveva queste righe:
Questa vita non è tutto.
Esiste un’eternità.
Dire questo è oggi, anche in teologia, cosa piuttosto non moderna.
Un discorso sull’aldilà viene considerato una fuga dall’al di qua.
Ma come può esserlo, se è una verità?
Possiamo prescindere da essa?
Dovremo liquidarla come consolazione?
O non è vero, invece, che è proprio l’eternità a dare alla vita la sua serietà, la sua libertà, la sua speranza?
(JOSEPH RATZINGER, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 2012, p.57)
Spesso, i concetti di «aldilà» e di «al-di-qua» sono stati contrapposti.
E più di una volta, per dar forza a questa contrapposizione, sono state usate a sproposito le parole di Gesù:
Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.
(Mt 16,25)
Come ho detto più volte nel blog, l’estrapolazione di un versetto dal suo contesto porta ad un fraintendimento del Vangelo… infatti:
- in molti suoi discorsi, Gesù utilizza iperboli, esagerazioni, paradossi ed altri espedienti retorici che erano tipici della cultura semitica (dal cammello che passa per la cruna dell’ago, alla condanna al fuoco della Geènna per chi dice al proprio fratello «Pazzo!»);
- versetti come quello che ho citato qui sopra dovrebbero sempre essere letti insieme a quegli altri in cui Gesù parla della ricompensa «quiggiù sulla terra» per chi lo segue… ad esempio: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà» (Mc 10,29-30)
Ora, intendiamoci.
È chiaro che Gesù, quando promette il paradiso, allude ad una pienezza di vita «nel regno dei cieli».
Ma è altrettanto chiaro dalle sue parole che un seme di quella pienezza può essere sperimentato anche «quiggiù» sulla terra, nella vita di tutti i giorni.
Infatti, la vita eterna non è nient’altro che questo: gustare la mia personale ed unica relazione con Dio.
Il paradiso non è nient’altro che questo: stare con Gesù (cfr. Lc 23,43).
E questa beatitudine non si sperimenta solo «nell’aldilà» – come dice erroneamente Nietzsche.
Questa beatitudine si può sperimentare «qui ed ora».
Per persuardersi di questo, è sufficiente leggere la biografia di qualche santo…
sale
(Estate 2023)
- BENEDETTO XVI, Spe Salvi (enciclica sulla speranza cristiana)
- DANTE ALIGHIERI, Paradiso (commentato da Franco Nembrini, illustrato da Gabriele dell'Otto), Mondadori, Milano 2021
- VITTORIO MESSORI, Inchiesta sul cristianesimo: Sei tu il Messia che deve venire?, SEI, Torino 1987
- JOSEPH RATZINGER, Il Dio di Gesù Cristo: meditazioni sul Dio uno e trino, Queriniana, Brescia 2011
- JOSEPH RATZINGER, Escatologia: morte e vita eterna, Cittadella Editrice, Assisi 2008