Solitudine, relazioni superficiali, amicizia… pensieri sparsi

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1 • Trasmettere un fardello (?)

Se penso alla possibilità che in futuro io possa sposarmi e formare una famiglia, c’è una cosa che mi fa veramente paura…

…sì, esatto, sono i figli!

dormire poco

Però, in realtà – se penso alla possibilità di avere dei figli – il sonno non è la cosa che mi spaventa di più.

La cosa che mi spaventa di più è che io oggi sono un trentatreenne cristiano…

…ma una ventina di anni fa sono stato un adolescente cristiano.

E ricordo bene cosa ha significato per me essere un adolescente cristiano.

Al liceo, ho avuto per la prima volta in vita mia la consapevolezza di far parte di una minoranza.

Ho avuto la percezione che a casa papà e mamma (e soprattutto nonna Olga) mi dicevano delle cose… ma che «fuori dalla porta di casa» il mondo diceva tutt’altro.

Mi sono sentito “fuori dal branco”.

Mi sono sentito solo.

Oh, intendiamoci.

Avevo una bella famiglia – genitori, sorelle, zii, nonni, cugini fantastici…

Avevo qualche buon compagno di merende in parrocchia…

E poi c’era il mio compagno di banco – Gianmarco – che era una delle poche persone di scuola a cui volevo bene (*).

(*) (eterosessualmente bene)

Però è stato in quel periodo che, per la prima volta, ho iniziato ad avvertire questa sensazione di solitudine.

La sensazione di non avere nessuno a cui poter veramente aprire il cuore.

Qualcuno con cui confrontarmi sulle tante domande che avevo: sulla vita, su Dio, sui miei desideri.

Non so quale sia stata la causa scatenante:

  • un po’ probabilmente hanno contribuito Flavia e Annalia (**) che, come raccontavo qui, il primo anno di liceo mi prendevano in giro per come mi vestivo e mi comportavo, e mi dicevano che ero «un soggggetto» (e forse non avevano tutti i torti)… e mi hanno lasciato una certa soggezione nei confronti “del branco”, del quale ho sempre sentito di non fare parte;
  • un altro po’ ha contribuito il fatto che – al di là di loro due – il clima nel mio liceo era un po’ pesante, e si respirava quest’aria un po’ snob, «da pariolini», che non era nelle mie corde;
  • forse ha avuto il suo peso anche il professore ateo e anticlericale che ho avuto il secondo anno di liceo, che spendeva metà delle sue lezioni per cercare di dimostrarci la falsità del cristianesimo e la malvagità «ontologica» della Chiesa cattolica (ora non voglio tirarla per le lunghe; per chi se lo fosse perso, lo rimando all’episodio zero di «Osteria der Vaticano», in cui raccontavo la vicenda);
  • e poi – al di là del professore – nella mia classe non c’era nessuna persona che credesse in Dio… e ricordo bene quanto è stato pesante sopportare il peso di avere un’opinione “non proprio uguale” a quella dei miei compagni di classe sul pudore, sulla pornografia, sull’ideologia gender, sul femminismo e su un sacco di altri temi di cui ho scritto qui sul blog.

(**) (a scanso di equivoci, non vedo Flavia e Annalia da allora, ma se oggi le incontrassi, le abbraccerei serenamente, mi mangerei una pizza con loro, e mi farei una bella chiacchierata in allegria!)

Insomma.

Senza stare ad attaccare la pippa.

Riallacciandosi al discorso che stavo facendo.

Ormai è passato taaanto tempo, e le ferite di quegli anni sono cicatrici sbiadite.

Però.

Se un giorno dovessi avere dei figli…

E se i miei figli malauguratamente seguissero le mie orme e diventassero cristiani…

…arriverà un momento della loro vita in cui saranno adolescenti cristiani.

Ecco.

Ogni tanto mi pongo questa domanda: «Che fardello gli sto consegnando?».

2 • Amicizia e «intercambiabilità»

Sto per dire una cosa un po’ impopolare.

Secondo me, la parola «amicizia» viene utilizzata un po’ troppo a cuor leggero:

  • «Lui è un mio amico! Ci vediamo tre volte a settimana in palestra!»
  • «Ieri sera mi sono visto con gli amici della comitiva e abbiamo fatto aperitivo!»
  • «Oggi faccio nottata in discoteca con i miei amici
  • «Io e lei siamo scopamici
nerdare al computer

Amici di qua.

Amici di là.

Amici di su.

Amici di giù.

Sapete perché ho aperto questo paragrafo dicendo che la parola «amicizia» viene utilizzata un po’ troppo a cuor leggero?

Negli ultimi anni, ho avuto varî “campanelli d’allarme” che mi hanno fatto mettere pesantemente in discussione quello che pensavo sull’amicizia.

Provo a riordinare le idee.

Per buona parte della mia vita, ho usato la parola «amico» come sinonimo di:

  • compagno di classe
  • compagno di giochi
  • membro della mia gilda in un GDR online
  • partner di nerdate davanti a una console
  • coetaneo che incontro in palestra con cui condivido gli allenamenti
  • collega di lavoro simpatico
  • compagno di bevute (analcoliche, dato che sono praticamente astemio)
  • etc.

C’è un problema però.

Il filosofo greco Aristotele (384 a.C. – 322 a.C.) diceva che:

Senza amici, nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni.

(ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VIII, 1)

In altre parole: secondo Aristotele, l’amicizia è più importante di ogni altro bene.

Io invece, in varî momenti della vita, avrei “barattato” molto volentieri:

  • il mio “amico” che non portava mai la merenda a scuola con un “amico” che portasse sempre merende buone e le condividesse con me;
  • il mio “amico” senza Playstation con un “amico” con la Playstation;
  • il mio “amico” che parlava in continuazione di calcio, politica o criptovalute, con un “amico” che parlasse di argomenti interessanti;
  • etc.

Detto in altre parole: le persone che frequentavo, erano intercambiabili ai miei occhi.

In che senso?

Nel senso che se qualcuno avesse indossato un passamontagna e si fosse sostituito ad uno dei miei “amici”, molto probabilmente io non avrei notato la differenza.

Non so se questi esempî che ho fatto vi toccano qualche corda.

O se nella vostra vita riuscite a trovare dei casi analoghi.

Però, secondo me, se una relazione è (in qualche modo) intercambiabile, allora non è un’amicizia.

Intendiamoci.

Belle le uscite con la comitiva con cui si cazzeggia

Belli gli aperitivi in spiaggia….

Belle le partite di calcetto…

Belle le serate in cui vai a sballarti in discoteca…

Bello il weekend in Grecia a Santorini con le tue squinzie, per sentirti come Meryl Streep in Mamma Mia!

…ma l’amicizia è un’altra cosa.

3 • Il mio primo amico

Il mio primo amico l’ho avuto a 24 anni circa.

In realtà, avevo conosciuto Gigi un anno e mezzo prima, ma in quel lasso di tempo era rimasta una conoscenza abbastanza superficiale.

Poi è successo l’imprevisto: durante una partita di calcetto, Gigi mi ha rotto un dito del piede (*).

(*) (la cosa buffa è che io e Gigi giocavamo nella stessa squadra 🥸)

Sul momento, pensavamo che il mio dito fosse semplicemente contuso, e non abbiamo dato troppo peso alla questione (sono andato in pronto soccorso soltanto la mattina dopo)…

…e infatti, Gigi ha saputo del mio infortunio qualche giorno dopo, da altre conoscenze che avevamo in comune.

Quando lo ha scoperto, mi ha chiamato al cellulare.

Si è scusato (anche se in realtà l’infortunio è stato un’incidente, e non c’era nulla di cui scusarsi)…

…e mi ha chiesto se poteva passare a trovarmi a casa.

Lì per lì, ho pensato qualcosa tipo: «Oddio, ma che vuole da me questo semi-sconosciuto?».

Però visto che sono un people pleaser, gli ho detto di sì.

Nelle settimane successive ci siamo visti qualche altra volta.

Poi abbiamo continuato a farlo nei mesi successivi.

Poi negli anni.

E Gigi è diventato il mio primo vero amico.

Domanda da un milione di dollari: cosa è scattato con Gigi che con le mie altre conoscenze non era scattato?

Qual è la scintilla che ha innescato il tutto?

Su cosa si è basata la nascita di questa amicizia?

Stessi gusti?

Stessa squadra del cuore?

Stessa fede politica?

Stessa religione? (*)

Niente di tutto questo.

(*) (Gigi è ateo)

Qual è allora “il segreto”?

A ben vedere, sarebbe prematuro rispondere oggi a queste domande.

Al più, potrei rispondere tra una cinquantina di anni, se quest’amicizia durerà.

sale anziano rimbambito

Come è nata questa amicizia?

Io e Gigi non facevamo nulla di particolare.

Semplicemente… parlavamo.

Parlavamo passeggiando intorno all’università.

Parlavamo passeggiando nei dintorni di casa mia.

Parlavamo passeggiando vicino alla parrocchia che frequentavo in quegli anni.

E di cosa parlavamo?

Di tutto.

Anzi.

Forse, proprio per il fatto che Gigi per me era uno sconosciuto, mi sono sentito libero di poter parlare di tante cose di cui non avevo mai parlato con nessuno:

  • delle mie ferite più profonde
  • dei miei desiderî più inascoltati
  • delle mie inquietudini
  • della fatica che stavo facendo nel mio discernimento, nel tentativo di capirci qualcosa su ciò che avrei voluto fare «da grande»
  • delle cicatrici che mi avevano lasciato Flavia e Annalia
  • del desiderio che avevo di trovare «la persona giusta»

Ovviamente, è stata una cosa graduale.

E complementare.

Ma più consegnavamo l’un l’altro le nostre paure più grandi e i nostri sogni più fragili, più ci rendevamo conto che custodire queste cose in due era molto meglio che custodirle da soli.

A tal proposito, c’è una frase che ha scritto Franco Nembrini (insegnante, saggista e pedagogista italiano, classe ’55), che penso riassuma alla perfezione quello che ho vissuto con Gigi:

Da che cosa nasce infatti un’amicizia?
Dal fatto che stiamo insieme davanti a qualcosa di grande.
Diventiamo amici perché ci è capitata la stessa cosa, siamo partecipi dello stesso avvenimento.
Non perché abbiamo gli stessi gusti, perché ci troviamo simpatici, perché abbiamo un problema in comune: tutte queste caratteristiche svaniscono in un attimo, e ci si ritrova soli come prima.
Ma incontrare una cosa grande, affrontare e seguire insieme una cosa grande: ecco quel che genera l’amicizia.
E allora si può anche essere diversi su tutto, perfino divisi – mi azzarderei a dire – su tutto; ma quel che di grande guardiamo crea un legame che supera qualsiasi diversità, qualsiasi divisione.

(FRANCO NEMBRINI, dal suo commento a DANTE ALIGHIERI, Purgatorio, Canto XXIX, Mondadori, Milano 2020, pag.651)

4 • In che consiste l’amicizia?

Sapete perché – col senno di poi – dico che tutti i compagni (di scuola, di comitiva, di merende) che avevo avuto fino a quel momento non erano miei amici?

Per due motivi:

  • perché (come ho detto prima) erano relazioni intercambiabili
  • perché erano relazioni centrate su di me

In che senso «centrate su di me»?

Erano relazioni nelle quali non mi sono mai compromesso.

Relazioni piccolo-borghesi.

Relazioni take-away.

Nella parte di mondo in cui vivo, penso che un po’ tutti corriamo il rischio di cadere in questa trappola: ci divertiamo insieme ad altre persone, stiamo insieme nella leggerezza, nella goliardia, facciamo vacanze, ci sballiamo… ma ognuno pensa al proprio ombelico.

Crediamo di stare “tutti insieme”

…ma viviamo in modo individualistico (come provavo a spiegare in quest’altra pagina del blog, «individualistico» è il contrario di «personale»):

La cultura moderna si è costruita sul culto dell’individualità: l’idea dell’uomo realizzato è l’individuo, cioè uno che si è reso indipendente da tutti i rapporti, sentiti come vincoli, come condizionamenti, e afferma la propria singolarità contro tutti e contro tutto.
Solo che l’esito di questo culto dell’individuo è alla fine una terribile solitudine […].
Al contrario, per la tradizione cristiana, per il Medioevo di Dante, l’essere umano non è individuo; è persona.
“Persona” è il termine che il linguaggio teologico adopera per la Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo sono tre Persone.
Anche se tante volte le usiamo come se fossero sinonimi, in realtà la parola “persona” ha un significato molto diverso da “individuo”: l’individuo è uno che è sé stesso perché si è liberato da tutti i rapporti; la persona è sé stessa perché è costituita da un fascio di rapporti che continuamente la generano e la alimentano.

(FRANCO NEMBRINI, dall’introduzione a DANTE ALIGHIERI, Paradiso, Mondadori, Milano 2021, p.48)

L’amicizia con Gigi mi ha fatto avere una seria presa di coscienza.

Mi ha fatto rendere conto del fatto che è tremendamente vero quello che dice il libro del Siracide:

Ogni amico dice: «Anch’io sono amico»,
ma c’è chi è amico solo di nome.

(Siracide 37,1)

In tanti momenti della mia vita…

In tanti contesti…

…io sono stato amico «solo di nome».

L’amicizia con Gigi è stata un trampolino di lancio anche per iniziare a prendere maggiormente sul serio le relazioni che avevo con molti “compagni di merende” per trasformarle in qualcosa di più profondo.

Per andare più in profondità.

Per provare a diventare veramente amico di persone che per buona parte della mia vita sono state solo compagni di giochi o di uscite.

gradualita

Oh, facciamo a capirci.

Dopo questa mia “presa di coscienza” NON SONO diventato all’improvviso il Sam Gamgee dei miei «amici Frodo».

O il Robin dei miei «amici Batman».

O il Pumba dei miei «amici Timon».

Purtroppo, la mia grande difficoltà a “guardare oltre il mio ombelico” è rimasta.

Però, se le cose non sono (ancora) cambiate esteriormente…

…forse qualcosa si è smosso nel mio cuore.

Poi, per carità: so bene che affinché il cambiamento porti frutto, e nascano delle belle amicizie, c’è bisogno di tempo.

Per diventare un buon amico infatti non basta un’intuizione, seguita magari da un gesto eroico:

La potenza e la difficoltà dell’amicizia non si esprimono in un pirotecnico attimo d’eroismo, ma nella placida fiammella della pazienza di tutta una vita.
È la fiamma regolare della lampada a olio e non lo scoppio di un gas.
L’eroismo è sempre e soltanto l’ornamento e non l’essenza della vita […]; se si sostituisce alla vita, degenera inevitabilmente in trucco, in posa più o meno verosimile.

(PAVEL FLORENSKIJ, da «L’amicizia», undicesima lettera in La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.446)

L’amicizia non è questione di gesti clamorosi degni della miglior pellicola hollywoodiana…

…ma è la somma di tanti piccoli (ma significativi) atti:

Ognuno è in grado di compiere questo o quel gesto eroico, ognuno è capace di essere interessante; ma sorridere, parlare, consolare come il mio amico, lo può fare solo lui e nessun altro.

(PAVEL FLORENSKIJ, da «L’amicizia», undicesima lettera in La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.447)

L’amicizia è – per così dire – un «martirio a fuoco lento», che mostra la sua verità nel tempo.

Un po’ come l’amore in una coppia.

Non si basa su dichiarazioni roboanti, ma sullo stare giorno dopo giorno gomito contro gomito, crescendo insieme.

Nell’opera che ho citato qui sopra, il filosofo e teologo russo Pavel Florenskij (1882-1937) scriveva queste righe:

Si può dire una grande menzogna di sé in un’opera di molti volumi, ma non si può dirne la più piccola nella comunione di vita con l’amico.

(PAVEL FLORENSKIJ, da «L’amicizia», undicesima lettera in La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, p.447)

Oggi ovviamente nessuno scriverebbe un’«opera di molti volumi».

Ma se volessimo tradurre la frase di Florenskij, adattandola al contesto del 2024, si potrebbe dire qualcosa tipo:

Posso dire una grande menzogna facendomi un selfie con la mia comitiva, tutti sorridenti, all’all-you-can-eat di sushi, taggando ciascuno nella mia storia di Instagram… mentre invece posso stare «nella verità» con una di quelle persone, lontano dai riflettori dei social, e accogliere il suo dolore e le sue lacrime.

5 • Solitudine… in Chiesa

Dunque.

Devo fare una precisazione rispetto a ciò che ho detto nel primo paragrafo, quando parlavo della mia adolescenza.

Ho scritto che in quegli anni ho sperimentato per la prima volta la sensazione di «non far parte del branco».

litania emo piagnona

In una sua catechesi del 2023, padre Maurizio Botta diceva queste parole:

Essere esclusi, oggettivamente, nella realtà, è diverso dal «sentirsi» esclusi […].
Un conto è quando qualcuno realmente ti esclude da qualche cosa.
E un conto completamente diverso è quando tu ti senti escluso […].

(MAURIZIO BOTTA, dalla catechesi dei Cinque Passi «Fuori rosa… la paura di sentirsi esclusi», sabato 25 novembre 2023; clip video)

Su questo devo essere onesto: io non sono mai stato esplicitamente escluso.

Inoltre, il mio allontanamento dal branco non è stato frutto della decisione di un momento, ma una scelta che si è ripresentata, giorno dopo giorno, nel corso del tempo.

Non è stato un automatismo.

Non è stato un’evento «esterno a me» che mi è piovuto addosso.

Le cose potevano andare diversamente…

…però sono andate in questo modo.

Perché?

Difficile a dirsi.

In quel momento non ero una persona particolarmente salda (e quale adolescente lo è?)…

Non avevo un carattere particolarmente forte…

E avevo la paura (se non la certezza) che se avessi iniziato a frequentare certi giri di amicizie, nel giro di 4-5 anni sarei finito a fare lo strip dancer in un postribolo di Caracas…

Se infatti è vero che i miei genitori e nonna Olga avevamo seminato qualcosa di bello nel mio cuore…

E se è vero – come scrive Tolkien – che «le radici profonde non gelano» (JOHN RONALD REUEL TOLKIEN, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano 2002, p.226)…

…è pur vero che nell’adolescenza ci si sente spesso e volentieri sradicati.

Insomma.

In quel periodo della mia vita, mi si è posta davanti una scelta:

  • far parte del branco, perdendo una parte di me stesso
  • rimanere da solo

Leggendo queste righe, forse qualcuno di voi starà pensando qualcosa tipo:

  • «Scusami, Sale, ma non potevi trovare una via di mezzo?»
  • «Tra “perdersi” e “rimanere solo” non c’è una scala di grigi?»
  • «Non ti sembra di essere un po’ drastico e melodrammatico?»

Non lo so.

Forse sì.

O forse, a volte, nella vita non esistono «vie di mezzo».

Lo scopriremo quando saremo “dall’altra parte”, incrociando quello Sguardo.

~

Comunque.

Perché ho raccontato l’aneddoto sulla mia solitudine nel periodo del liceo?

No, non volevo parlar male del liceo.

Come dice il proverbio, «tutto il mondo è paese»: la solitudine che ho sperimentato a liceo nel mio gruppo classe, l’ho vissuta spesso anche all’interno della Chiesa.

Ma… come è possibile?

La Chiesa non dovrebbe essere il luogo dell’«accoglienza»?

I cristiani non sono «tutti fratelli» (o «fratelli tutti»)?

Come ci si può sentire «soli» tra fratelli?

In un suo libro pubblicato qualche anno fa, don Luigi Maria Epicoco (classe ’80) scriveva queste righe:

Non basta essere insieme per dire di essere Chiesa.
Non basta il culto delle sagre a renderci comunità.
Non basta sederci l’uno accanto all’altro per dire anche di aver incontrato Cristo.
L’esperienza della Chiesa è l’esperienza di quel luogo dove accade l’Eucarestia.
[…]
La Chiesa è fare incontrare la nostalgia dell’uomo con il fuoco del Vangelo.

(LUIGI MARIA EPICOCO, Solo i malati guariscono : l’umano del (non) credente, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2016, p.62-63)

Anche all’interno della Chiesa vale (e anzi, vale in modo eminente) quello che dicevo prima riguardo l’amicizia.

Così come a scuola c’è differenza tra un «amico» e un «compagno di classe»

…anche in Chiesa c’è differenza tra un «amico» e una «persona che incontro tutte le domeniche a messa».

Finché noi cristiani andremo in Chiesa come si va al cinema – cioè come un insieme di sconosciuti che va ad assistere ad uno spettacolo – come possiamo sperare che il mondo pensi che il cristianesimo sia bello (oltre che vero)?

In un intervista del 2017, è stato chiesto ad Epicoco come si fa ad arrivare alle persone che “hanno alzato una barriera” nei confronti della Chiesa.

Don Luigi ha risposto in questo modo:

La prima cosa che dobbiamo ricordarci è che il Vangelo si propaga per amicizia.
A volte delle persone non incontreranno mai la Chiesa come istituzione, ma la Chiesa nella sua sostanza più profonda.
Perché la Chiesa, nella sua sostanza più profonda, è amicizia, fondamentalmente; cioè, il fatto che ci sono delle persone che decidono di camminare insieme.
Questo possiamo porgerlo a tutti: c’è un cristianesimo che magari non viene pronunciato ad alta voce ma che viene vissuto nei fatti: offrire seriamente l’amicizia a qualcuno, offrire seriamente la possibilità di camminare accanto a qualcuno.
Se noi mostriamo semplicemente delle forme, che a noi dicono qualcosa, mentre a qualcun altro – per l’esperienza che ha avuto – si irrigidisce, c’è qualcosa invece che funziona sempre, cioè vivere il bene senza per forza doverlo subito nominare ad alta voce.
Noi non vogliamo bene alle persone in maniera interessata, perché «le vogliamo tirare dalla nostra parte», il nostro proselitismo si nutre di una gratuità totale: «anche se tu non verrai mai dalla mia parte, io ti voglio bene, mi interessa la tua vita, piangere del tuo pianto, sorridere della tua gioia».
Quando una persona si sente amata così, lei non lo sa, ma già ha toccato la Chiesa.
Già ha toccato Cristo, anche se non se ne rende conto.

(LUIGI MARIA EPICOCO, da un’intervista del 30 ottobre 2017)

Che significa la frase «vivere il bene senza per forza doverlo subito nominare ad alta voce»?

Io ho l’impressione che, spesso, in Chiesa ci rintroniamo la testa (oltre che i testicoli) con:

  • «consigli pastorali» sull’accoglienza
  • «sinodi» sulla fratellanza
  • «meeting» sulla misericordia
  • «simposi» sulla nuova evangelizzazione
  • «seminari» sulla petalosità

Ho l’impressione che, spesso, questi eventi servano solo (per usare le parole di don Luigi) a «nominare ad alta voce il bene», ma che non siano di grande aiuto per viverlo.

A questo punto, qualcuno domanderà: «Sale, visto che sei tanto bravo a criticare, sentiamo un po’ quale sarebbe la tua “soluzione”!».

Più che di «soluzione», io parlerei di «assetto di viaggio».

Non esiste infatti la “bacchetta magica”

…però c’è una traccia, un solco, una strada battuta, percorsa dai cristiani da un paio di millennî.

Nella frase che ho citato prima, don Luigi Epicoco diceva: «L’esperienza della Chiesa è l’esperienza di quel luogo dove accade l’Eucarestia».

E dov’è che «accade l’Eucarestia?».

L’Eucarestia accade quando smetto di andare a Messa la domenica come se stessi timbrando il cartellino, e scopro che sto rispondendo ad un invito: «Venite e vedrete» (Giovanni 1,39), «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi» (Luca 22,15).

L’Eucarestia accade quando ascolto i brani che vengono letti a Messa, e scopro che – sotto a due dita di polvere – all’interno di quei testi c’è una Parola per me.

L’Eucarestia accade quando mi inginocchio non perché «bisogna farlo» o perché «lo fanno tutti», ma perché «piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (Efesini 3,14), spinto dalla tenerezza, dalla commozione, dalla riverenza che provo al cospetto del Creatore di tutto ciò che di bello ho visto, vissuto, esperito sulla mia pelle.

L’Eucarestia accade quando «Dio» non è più un «concetto astratto», ma la Relazione sulla quale poggia ogni altra mia relazione – con i miei amici, mia moglie, i miei figli.

L’Eucarestia accade quando i Sacramenti smettono di essere dei riti abitudinarî, ed iniziano ad essere l’ossigeno che respiro.

Se l’Eucarestia non accade, tutto il resto sono orpelli superflui…

Sovrastrutture inutili…

Fronzoli irrilevanti…

Senza l’Eucarestia, tutto si secca.

I consigli pastorali.

I sinodi.

I meeting.

Il lavoro.

Il tempo libero.

L’amicizia.

Conclusione

Chiudo con una frase di Agostino d’Ippona (354-430), che nelle Confessioni scriveva che:

[…] non esiste vera amicizia se non è cementata da Te tra coloro che tu stringi a Te nella carità diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato.

(AGOSTINO D’IPPONA, Le confessioni, Libro quarto, capitolo IV, BUR, Milano 2012, versione Kindle, 17%)

sale

(Estate 2024)

Fonti/approfondimenti
  • PAVEL FLORENSKIJ, da «L'amicizia», undicesima lettera in PAVEL FLORENSKIJ, La colonna e il fondamento della verità : saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010
  • DANTE ALIGHIERI, Purgatorio (commentato da Franco Nembrini, illustrato da Gabriele dell'Otto), Mondadori, Milano 2018
  • DANTE ALIGHIERI, Paradiso (commentato da Franco Nembrini, illustrato da Gabriele dell'Otto), Mondadori, Milano 2021

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