1 • Un pensiero strisciante
Conosco molte persone che – a un certo punto della loro vita – hanno subito una sorta di infatuazione nei confronti di Dio:
- alcune di loro non erano cristiane (in questa pagina raccontavo le storie di alcuni atei che si sono convertiti al cristianesimo);
- altre credevano in Dio (più o meno), ma vivevano in modo tiepido… e questa “folgorazione” ha ribaltato tutte le priorità della loro vita.
Comunque.
Quale che sia il caso.
Quando ci si avvicina a Dio per la prima volta…
…ma anche quando ci si riavvicina a Dio (in modo un po’ più serio e profondo)…
…spesso le persone – colme di fervore e animate da questo “sacro fuoco” – si presentano in parrocchia desiderose di mettersi al servizio.
Vogliono:
- diventare animatori di gruppi giovani o giovanissimi;
- fare catechismo ai bambini;
- dare una mano alla Caritas;
- fondare un gruppo di preghiera settimanale;
- creare un blog di apologetica a fumetti;
- etc.
Il loro entusiasmo sembra senza limiti, e tutto appare come una nuova, meravigliosa avventura spirituale.
Eppure, proprio in questo fervore iniziale, si rischia di cadere in una trappola tanto sottile quanto insidiosa: in molti di questi casi infatti, c’è il serio rischio che l’infatuazione verso Dio si trasformi lentamente in una sorta di innamoramento verso sé stessi.
Il pericolo è che – con l’aumentare dello zelo e del fervore – la persona cominci a concentrarsi sempre di più su «quanto è brava», su «quanto la sua missione sia importante», fino a percepirsi quasi indispensabile.
Oh, facciamo a capirci: questi pensieri non sono quasi mai espliciti…
…anzi, il più delle volte questa tentazione è sfocata… zigzagante… strisciante…
È come se, senza accorgersene, il focus passasse dal servizio a Dio al piacere che deriva dal sentire di fare qualcosa di grande.
Si inizia a confondere il servizio con l’autocompiacimento, il bene che si fa con il proprio ego.
Ed è qui che si insinua la filautia, l’amore eccessivo per sé, mascherato da apparente devozione.
Si comincia a vedere il successo della propria missione come un riflesso della propria bravura, e non come un dono di Dio.
Pian piano, il cuore si lega non tanto a Dio, ma alla gratificazione che si prova nel sentirsi protagonisti di un’opera buona.
Il Nemico, con astuzia, fa distogliere lo sguardo da Dio e lo fa scivolare su sé stessi, usando il bene compiuto come specchio per l’ego, piuttosto che come via per la gloria di Dio.
2 • Il cristiano delle prestazioni
Se non fosse già difficile riuscire a riconoscere la tentazione di cui ho parlato nel precedente paragrafo… ora getto altra benzina sul fuoco!
Sapete chi è che (il più delle volte) insinua questa tentazione?
Sono le stesse realtà e movimenti cattolici!
Maaa… in che senso? Come sarebbe a dire?
Spesso, nei gruppi più “attivi”, più “coinvolti”, più “militanti”, che animano la vita di parrocchia, si diffonde (in modo più o meno consapevole) il «mito del cattolico impegnato», cioè del «bravo ragazzo» o della «brava ragazza» che si rimbocca le maniche e si mette a fare il catechista delle comunioni, o il formatore del gruppo giovanissimi, o il volontario del gruppo Caritas, o l’animatore AC, o il consigliere parrocchiale…
Qual è il problema?
Il problema è che in nome del «mito del cattolico impegnato», si corre il serio rischio di «bruciare le tappe», invitando il neo-convertito a «dare» prima che abbia realmente ricevuto da Dio ciò che gli occorre.
In che senso?
Cos’è che gli occorre «da Dio»?
Dunque.
Io non sono né un teologo, né un padre spirituale…
…secondo me, però, prima di poter andare in giro a fare «il testimone», un cristiano…
- deve prima confrontarsi con un «palo in faccia» dalla vita: un desiderio frustrato, un’amarezza, un dolore, un limite insormontabile, una fragilità, lo sguardo deluso di qualcuno su di lui, una malattia, un lutto… insomma, non si può parlare di un Dio crocifisso se prima non si è fatta esperienza di cosa sia realmente la croce (per chi volesse approfondire, lo rimando alle due pagine che già avevo scritto sul tema del dolore e della sofferenza a questo link e a quest’altro link);
- deve prima sperimentare, in qualche modo, lo sguardo di Dio su di lui: nella preghiera, nel silenzio, nella contemplazione, nel raccoglimento, nell’adorazione; deve aver sperimentato lo sguardo di Dio sulle sue fragilità, sulle sue ferite, sulla sua pochezza, sui suoi peccati; deve aver intuito che quelli che lo scrutano non sono gli occhi giudicanti della signorina Trinciabue, ma quelli di un Padre Buono, che lo guardano in modo dolce e tenero;
- deve conoscere la fede che proclama; non dico che sia necessario conoscere a memoria il Catechismo… o citare chissà quale teologo o padre della Chiesa… ma non c’è annuncio cristiano senza una conoscenza della rivelazione cristiana; uno dei più grandi scrittori italiani diceva che «per fare il bene, bisogna conoscerlo» (ALESSANDRO MANZONI, I promessi sposi, Newton Compton Editori, Roma 2006, versione Kindle, 47%)… ecco, se il Bene si è incarnato e ha lasciato una traccia nella storia, non penso che si possa ignorare questo fatto (Matteo 16,18).
Se non si è passati da queste tappe, si spingono i cristiani a mettersi in prima linea, a testimoniare e a guidare altri spiritualmente, quando il loro cuore non ha ancora maturato una vera intimità con Dio.
È come voler accelerare una gravidanza spirituale, portando alla luce una conoscenza ancora acerba, e così facendo, si finisce per travisare il senso profondo della fede… e abortirla.
Esatto: abortirla…
…perché se si salta una delle tappe che ho menzionato, si rischia di trasformare il cristianesimo:
- in un volontarismo/volontariato, basato sull’«impegno» e sulla «buona volontà», anziché sulla grazia di Dio;
- in un generico «volemosebbene», che però non ha radici profonde, e si lascia intortare da ogni moda dei nostri giorni (penso all’ideologia gender, di cui ho scritto qui, sostenuta ingenuamente da tanti cristiani… o a certe derive del femminismo, di cui ho parlato in questa pagina, e in quest’altra, e in quest’altra ancora… o ad altre ideologie che si sono diffuse in modo capillare anche all’interno della Chiesa, e confondono tanti cristiani)
- in un elenco di regole da seguire (poi poco importa se uno crede in Gesù, Buddha o in Krishna)
Se mancano le basi, si crede ingenuamente di poter illuminare gli altri… ma, in realtà, è ancora necessaria una fase di crescita e ricezione.
Ecco.
Il Nemico si insinua proprio qui, facendo leva sulla fretta e sulla percezione che si è pronti a donare ciò che ancora non si possiede pienamente.
E purtroppo, un sacco di ragazzi e ragazze seguono questa falsa pista, ingannati dall’illusione dell’approvazione esterna e da un’immagine di sé che non corrisponde alla realtà.
A tal proposito, vi riporto questo passaggio tratto da un libro di don Giuseppe Forlai:
Molti cristiani vivono «per» Cristo. A loro – beati! – basta e avanza: fanno tante cose per lui come le farebbero per lo zio ricco che sta per morire da un momento all’altro. Alcuni sognano grandi imprese: “Come sono bravo, Dio saprà sicuramente cosa fare di me!”. Il cristiano della prestazione sta a suo agio non nella mistica ma nella «chiesa azienda», nei vari servizi. C’è tanta buona fede in questo, ma anche un pizzico di amore di sé: spesso il servizio a Dio e al prossimo è funzionale solamente alla gloria mondana che si brama ricevere. Ecco perché chi vive «per» fa spesso tanta fatica a dimettersi o a lasciare il passo ad altri. Convertire sì, convertir-si mai!
(GIUSEPPE FORLAI, Vestirsi di luce : introduzione pratica alla vita nello Spirito, Paoline, Milano 2018, p.18)
(Per le tematiche di questo paragrafo e del precedente, cfr. MARKO IVAN RUPNIK, Il discernimento : 1: Verso il gusto di Dio, 2: Come rimanere con Cristo, Lipa, Roma 2009, p.141-143)
3 • L’illusione dell’autosufficienza spirituale
Torniamo al nostro neo-convertito, desideroso di “mettersi in gioco”.
Al parroco non sembra vero:
- sempre meno ragazzi e ragazze vengono in Chiesa;
- non ci sono abbastanza animatori per l’oratorio;
- non c’è più nessun chierichetto;
- non sa a chi affidare il catechismo delle prime comunioni (la signora Argimira ha i piedi gonfi, e non riesce più a venire in parrocchia il giovedì sera);
Quindi, in men che non si dica, il baldo giovane è coinvolto in una (o più di una) attività.
Ora.
Non so voi… quindi parlo per me stesso: non vi dico che botta di dopamina per l’ego di un ventenne!
Un ruolo.
Un incarico.
I “riflettori del Signore” addosso.
Parte l’anno parrocchiale, e la vita procede frenetica, tra un impegno e l’altro.
Tra l’università, l’incarico parrocchiale, gli amici, lo sport, la morosa.
Tra un imprevisto e l’altro.
Tra un affanno e l’altro.
Qualcosa inizia a scricchiolare.
Che succede se il suddetto “bravo ragazzo” inizia a percepire un distacco tra ciò che crede di essere e la realtà?
Che succede quando gli altri non apprezzano abbastanza il suo impegno e la sua buona volontà?
Che succede se i suoi piani iniziano ad incrinarsi?
Ci sono due possibilità.
La prima possibilità è accettare il «palo in faccia» che la vita gli sta dando.
E questa è veramente un’ottima notizia!
Non finirò mai di ripeterlo: uno dei modi modo più inequivocabili in cui Dio parla è con i pali in faccia – soprattutto con le persone dure di orecchie.
I pali in faccia servono a ammorbidire l’ego, a creare una crepa nel nostro guscio di orgoglio, una crepa dalla quale Dio può entrare (per chi volesse approfondire, lo rimando alla pagina del blog sulle ferite).
Se da quella crepa entra Dio, dopo sarà tutto più facile (vedi il discorso che facevo nel precedente paragrafo riguardo allo sguardo di Dio):
- si può proseguire nel proprio mandato, consci della propria pochezza e fragilità, e che «né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere» (1 Corinzi 3,7);
- si può rinunciare al proprio mandato, riconoscendo che lo si sta portando avanti unicamente per orgoglio e per filautia, cioè per quell’amore disordinato di sé, che porta a mettere il proprio ego al centro, spesso a scapito degli altri e del bene comune;
- si può fare qualsiasi altra scelta, rimettendola nelle mani del Padre;
- etc.
La seconda possibilità invece è un vicolo cieco: si prosegue imperterriti lungo il cammino, alimentando l’illusione dell’autosufficienza spirituale, priva del fondamento autentico che viene solo dalla relazione profonda e continua con Dio.
Domanda da un milione di dollari: che frutti si raccolgono vivendo così all’interno della Chiesa?
Si raccolgono i frutti che, molto (troppo) spesso, vediamo intorno a noi:
- influencer religiosi che utilizzano i social media per promuovere sé stessi più che il Vangelo, condividendo riflessioni superficiali per ottenere “like” e approvazione;
- sacerdoti “star” che preferiscono i riflettori delle conferenze e dei talk show alle parrocchie, adattando il messaggio del Vangelo alle mode del momento per conquistare il pubblico;
- accademici illuminati, che lavorano nelle università pontificie e si considerano intellettuali superiori, etichettando chiunque abbia una fede semplice e devota come «non abbastanza preparato»;
- teologi che hanno perso la fede, che si fanno intervistare da Repubblica o dal Fatto Quotidiano, e che amano generare polemiche con le loro idee radicali, spesso allontanandosi dall’ortodossia della fede per guadagnare notorietà nei media;
- teologhe femministe frustrate, che appaiono spesso nei dibattiti pubblici e nei talk show, proponendo una teologia che sembra più focalizzata sulla lotta contro la “struttura patriarcale” della Chiesa piuttosto che sulla ricerca della verità in Cristo. Spesso fanno dichiarazioni provocatorie, criticando la Chiesa per la sua “oppressione” sulle donne, dimenticando il ruolo centrale e unico che il Cristianesimo ha dato alla figura femminile nella storia della salvezza. Invece di lavorare per la complementarità e la reciproca valorizzazione tra uomo e donna, adottano una prospettiva antagonista e miope, basandosi su una falsa idea di “emancipazione”.
Insomma.
Cristiani e cristiane scissi.
Frustrati.
Che hanno qualcosa da recriminare nei confronti dell’esistenza.
Non riconciliati con le proprie ferite.
Che cercano di colmare il vuoto con un ruolo, una posizione, un’opinione controversa per avere i riflettori addosso.
Che dietro all’amore per Dio nascondono il godimento narcisistico del guardarsi allo specchio.
A tal proposito, mi vengono in mente le parole che il filosofo e teologo russo Vladimir Solov’ëv (1853-1900) scrisse oltre un secolo fa:
C’è un digiuno spirituale: l’astinenza dalle azioni ambiziose o egoistiche, la rinuncia al potere e alla gloria umana.
Questo digiuno è particolarmente necessario agli uomini pubblici.
La regola è questa: non cercare il potere né il dominio; se sei chiamato al potere e al dominio, considerali come un servizio.
Ogni volta che capita, senza utilità per il prossimo, di mettersi in evidenza, mostrare la propria superiorità e forza, astienitene: non dare cibo al tuo amor proprio.
(VLADIMIR SOLOV’ËV, I fondamenti spirituali della vita, Lipa, Roma 2014, p.69)
4 • Quando il talento diventa un idolo
Nel precedente paragrafo ho provato a dire due scemenze su ciò che succede quando si vive all’interno della Chiesa in modo sradicato.
Dicevo che – senza un reale rapporto con Dio – c’è il serio rischio di vivere tutto in funzione del proprio ombelico:
- cercando la fama (i preti che fanno i balletti su TikTok);
- cercando l’applauso della folla (il teologo “originale” che fa il vaticanista per Repubblica)
- cercando lo sguardo scandalizzato dei cristiani più semplici (certe teologhe femministe)
Purtroppo però, la tentazione di vivere la propria vita in modo auto-centrato è un rischio reale e concreto anche per chi desidera sinceramente camminare nella via del Signore.
Infatti, ogni dono ricevuto da Dio può diventare terreno fertile per la tentazione:
- l’empatia
- la generosità
- la saggezza
- la capacità di aiutare i giovani a fare discernimento
- la dedizione nel prendersi cura degli altri
- la capacità di parlare di Dio scaldando il cuore di chi mi ascolta
- la profondità spirituale
- etc.
Ogni talento che Dio mi ha concesso può essere usato (a volte in modo inconsapevole) per il mio tornaconto personale.
Anche se faccio realmente del bene all’interno della Chiesa, devo combattere costantemente contro la tentazione di fare ciò che faccio «per la mia gloria»…
…altrimenti, gradualmente, subdolamente, senza rendermene conto, posso finire per svolgere il mio apostolato avendo come epicentro il mio ego e il mio interesse personale.
A tal proposito… gettiamo nuovamente benzina sul fuoco!
Avete presente che poche righe più sopra ho scritto che OGNI dono di Dio può diventare un idolo o un oggetto di tentazione?
Bene.
Questo significa che possono diventare idoli anche:
- l’ortodossia
- l’evangelizzazione
- l’apostolato all’interno di un movimento
- la sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale
- la difesa della famiglia
- la carità verso i poveri e gli emarginati
- la castità
- la dignità della persona umana
- un altro qualsiasi tema del Catechismo della Chiesa cattolica
In che senso?
Le cose che ho elencato, neanche a dirlo, sono tutte buone e giuste.
Il problema è che il Nemico può servirsene per farmi cadere in trappola: mi spinge a focalizzarmi unicamente sul tema che mi sta a cuore, usandolo come metro di giudizio per “radiografare” le persone che ho intorno e rimproverare chi è “in difetto”.
Senza rendermene conto, rischio di trasformarmi in un giudice implacabile, pronto a condannare chiunque non viva la fede (o un particolare aspetto della fede) esattamente come la vivo io.
In questo modo, gradualmente, la fede si trasforma in una ideologia: l’aderenza ad una specifica dottrina diventa il mio «tesoro prezioso»…
…e l’esperienza di una relazione reale con Dio, del suo sguardo su di me e del suo amore nei miei confronti scivolano in secondo piano.
Quando questo accade:
- mi trasformo progressivamente in un crociato;
- inizio a combattere «per Cristo», ma non «nel modo di Cristo»;
- difendo a spada tratta un aspetto della fede o della morale, ma calpesto inavvertitamente altri aspetti della vita cristiana senza neanche rendermene conto
Ebbene.
Questo atteggiamento di “guerra santa” è una malattia dell’anima.
Quando mi sento «a posto con la coscienza», perdo la consapevolezza della mia fragilità.
Quando vivo così, il Nemico:
- trasforma la mia fede in un criterio etico-morale per giudicare gli altri;
- mi fa crescere (spesso senza che io me ne accorga) nell’arroganza spirituale;
- deforma la mia sensibilità alle “cose di Dio” in un atteggiamento privo di umiltà, compassione e misericordia.
Il risultato – neanche a dirlo – è un isolamento interiore, in cui il mondo si riduce a un campo di battaglia contro chi non condivide il MIO modo di vivere la fede.
Con questo, ovviamente, non sto dicendo che occorra diventare lassisti nella fede… o eterodossi… o eretici…
…ma che:
La carità senza verità inganna. Ma la verità senza carità uccide.
(Cfr. BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, n.3-6)
Non c’è sequela di Dio senza carità.
Così come non c’è sequela di Dio senza umiltà… come ricordava il carmelitano spagnolo Giovanni della Croce (1542-1591):
Lo spirito di umiltà trasforma anche la sua visione del prossimo, che [l’anima] ormai stima e più non giudica come faceva in passato, quando considerava sé stessa con troppa indulgenza.
In effetti, è così presa dalla realizzazione della sua miseria che non ha né tempo né interesse per le mancanze altrui.
(GIOVANNI DELLA CROCE, Notte oscura, Città nuova, Roma 2006, p.53)
Insomma.
Anche quando cerco le cose di Dio…
Anche quando cerco il Vero, il Bello, il Buono…
Anche quando metto al servizio degli altri un talento che Dio mi ha dato…
…è necessario che Dio purifichi il mio desiderio – se necessario anche attraverso una umiliazione, una frustrazione, una mortificazione (per chi volesse approfondire questi concetti, lo rimando a questa pagina del blog).
Se Dio non mi spoglia del mio narcisismo, infatti, non cercherò mai (veramente) Lui, ma il mio ombelico.
E non c’è niente di spirituale in questo.
(Per questo paragrafo, cfr. MARKO IVAN RUPNIK, Il discernimento : 1: Verso il gusto di Dio, 2: Come rimanere con Cristo, Lipa, Roma 2009, p.144-148)
Conclusione
Chiudo questa paginetta con uno stralcio tratto da un altro libro di don Giuseppe Forlai (anche questo, nel dubbio, vi consiglio di leggerlo per intero):
Il Signore parla con la donna samaritana e i discepoli gli fanno capire che non è conveniente star solo a discorrere di fede con un’eretica poco di buono (cfr. Giovanni 4,27); cammina lungo la strada e loro tentano di allontanare i bambini che gli fanno festa intorno (cfr. Marco 10,13); un povero cieco buttato sul ciglio della strada cerca di farsi notare gridandogli dietro e i soliti discepoli gli intimarono di far silenzio (cfr. Luca 18,35-55): «il Maestro è occupato, non pretenderai mica che si fermi anche con te!?».
Insomma, il discepolo di tutti i tempi si sente investito della missione di controllare Gesù, di mettere il Signore a servizio delle proprie aspirazioni o esigenze.
È allora che il cristiano smette di essere un credente per diventare un semplicemente un esperto delle cose della fede, un funzionario della religione.
(GIUSEPPE FORLAI, Incontrare l’Inatteso : vita cristiana per gente perplessa, Paoline, Roma 2010, p.49)
sale
(Autunno 2024)
- MARKO IVAN RUPNIK, Il discernimento, Lipa, Roma 2004
- GIUSEPPE FORLAI, Incontrare l'Inatteso : vita cristiana per gente perplessa, Paoline, Roma 2010
- GIUSEPPE FORLAI, Vestirsi di luce : introduzione pratica alla vita nello Spirito, Paoline, Milano 2018